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mercoledì 1 settembre 2010

John & Jack



Questo libro raccoglie gli ultimi lavori di Jonathan Macini e Jack Lombroso, due autori crudi e sofferenti che riversano nelle loro storie tutta la loro rabbia per la società bugiarda nella quale viviamo. Il loro descrivere situazioni morbose è un modo per esorcizzare i mali del mondo.
Il libro si apre con un racconto a quattro mani iniziato alla fine del 2009 e rimasto incompiuto a causa della scomparsa di Jack. Non si hanno infatti sue notizie da svariati mesi. Lombroso è sempre stato un personaggio sfuggente. È riapparso qualche anno fa dopo più di una decade di vita borderline, ma tutti sapevano che non sarebbe durata. L'alcol, la droga, la depressione, e chissà quale altro mostro, hanno reclamato la sua anima. Jonathan non se l'è sentita di chiudere il racconto da solo e ha deciso di lasciarlo così, come la vita di Jack Lombroso, senza un inizio e senza una fine.

GM Willo – 26 Agosto 2010

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Fonte: Edizioni Willoworld

giovedì 3 giugno 2010

Spaghetti Pulp



Questa è la terza raccolta a tema delle Edizioni Willoworld, dopo La Leggenda di Udrien e altre fantastiche storie e Il Mondo oltre lo Spazio Disco.

Il genere pulp nasce in America negli anni venti grazie a riviste storiche quali “Weird Tales” e “The Strand”. Sarà proprio la qualità scadente di questi giornali, stampati con carta non rifilata di polpa di legno (pulp in inglese), a dare vita al fenomeno dei “Pulp Magazine”. All'epoca l'aggettivo “pulp” non definiva un vero e proprio genere, dato che su quelle riviste apparivano accanto ai racconti horror del grande Lovercraft le avventure di Conan il Cimmero di Howard. Solo in tempi recenti, grazie soprattutto ai film di Quentin Tarantino, il significato della “Pulp Story” ha assunto i consueti colori cremisi del sangue. È in sintonia con quest'ultima definizione che questa raccolta si pone.

Credo che possa parlare per tutti gli autori presenti in questa raccolta affermando che, nonostante i temi cruenti e morbosi affrontati, l'atteggiamento con cui queste storie sono state scritte è sicuramente giocoso. La voglia di raccontare storie, magari impegnandole di colori accesi, di frasi sporche, è un modo come un altro per divertirsi ed esorcizzare alcuni malanni della nostra società. Questo è il mood con cui mi piace sedermi davanti allo schermo e scrivere le mie storie.

Gli autori dei racconti presenti in questo libro partecipano alle attività ludiche e creative di una community on-line da me gestita. Rivoluzione Creativa è un luogo d'incontro dove poter creare in armonia sotto le regole del copyleft. Tutti quanti possono parteciparvi semplicemente registrandosi al sito: www.rivoluzionecreativa.co.nr.

lunedì 15 marzo 2010

Stanza n° 69

Da questo lavoro dipende tutto.
Le suole di gomma sono silenziose sulla moquette dell'albergo. I guanti ce li ho, il silenziatore è avvitato. Bene. La tipa non doveva fare il doppio gioco. Alla fine se lo merita. Peccato però, è davvero bella con quei capelli biondi e lisci. Curve perfette. Ma il Boss ha deciso così.
Apro la porta. Diventerò il migliore lo so. Mi avvicino al letto, illuminato dalla piccola torcia. Ci sono. Ecco. Il silenziatore attenua il colpo. Ce l'ho fatta. Il boss sarà contento. Accendo la luce. Cazzo! È una vecchia. Camera N° 99. Merda, ho sbagliato stanza.

mercoledì 24 febbraio 2010

L'anticamera



QUESTO RACCONTO È BASATO SU UNA STORIA REALMENTE ACCADUTA

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L'anticamera



Alex e Charles entrarono nel pub alla ricerca di una buona stout e di un bagno.

Tu ordina, io torno subito- disse Charles.

Poi, senza guardasi intorno, infilò la porta col cartello che indicava la toilette.


Alex si sedette al banco, su uno sgabello impagliato. Subito ebbe l’impressione di aver interrotto qualcosa, come di essere entrato sul più bello: ospiti inaspettati giunti nel momento meno opportuno. L’aria sembrava immobile. L’assenza di ogni tipo di rumore, un silenzio quasi innaturale, faceva risaltare ogni scricchiolio del vecchio sgabello.

Si guardò intorno come disorientato. Il vecchio al lato destro del banco, sollevò lo sguardo dalla pinta e glielo piantò in faccia.

-Salve- disse Alex, e solo allora si accorse della cicatrice che correva sulla parte sinistra del volto dell’uomo, interrotta soltanto dall’occhio completamente bianco e opaco. Il vecchio non rispose e tornò a bere la sua stout.


Charles non si trovò in bagno appena passata la porta, ma in un lungo corridoio pieno zeppo di fusti e casse di bottiglie di birra vuote, impilate fino alle travi del soffitto basso e scuro.

Un cartello vecchio di anni indicava ancora la strada per la toilette. Affrettò i passi, sollecitato dal bisogno impellente, sognando una intima stanzetta dove potersi liberare dalle quattro pinte che aveva già bevuto.

Il corridoio pareva non finire mai, sembrava diventare sempre più scuro man mano che si allungava. Raffiche di vento freddo entravano dalle finestre, quadrate e senza vetri, che correvano regolari sul muro destro. Charles rabbrividì per l’ennesima folata gelida e guardandosi intorno si chiedeva in quale singolare posto si trovasse. D’un tratto davanti a lui un ombra scura si staccò veloce dalle travi e due ali nere si aprirono davanti ai suoi occhi.

Il cuore sembrò fermarsi, ogni singolo muscolo si pietrificò, bloccando Charles sul posto come una statua di marmo.

Poi il piccolo uccello volò via da una delle finestre senza vetri. Charles riprese fiato e guardò verso il punto da dove era sbucato l’uccello. Un piccolo nido era nascosto tra la trave e il soffitto, sembrava che l’uccellino avesse trovato confortevole il corridoio di quello sgangherato pub, invogliato dalla facile possibilità di entrata e uscita fornitagli dall’assenza dei vetri.

-Irlandesi- sospirò Charles scuotendo la testa.

Dopo qualche passo ancora sembrava finalmente essere giunto alla fine di quel maledetto corridoio, sempre più freddo e buio. Una luce gialla usciva da una piccola porta sulla destra. Charles entrò.


Da una porta, sul retro del banco, uscì un anziana signora camminando in modo alquanto singolare.

Alex salutò gentilmente e ordinò due pinte. La vecchia sorrise appena e si girò per prendere i bicchieri con fare lentissimo, mostrando la gobba che la costringeva in quella strana postura.

Sempre più a disagio, Alex sperò che l’amico, ormai sparito da più di dieci minuti, tornasse al più presto e confidando nelle doti di bevitori quale erano, finire in fretta la pinta e uscire velocemente da lì. Non riusciva a spiegarsi perché, ma era ormai convinto che tutto intorno qualcosa si fosse fermato per causa loro. Solo non immaginava cosa.

I suoi pensieri furono interrotti dal pianto di una bambina, così improvviso che Alex saltò sullo sgabello, girandosi si accorse che oltre al vecchio orbo, nel pub, c’era anche una bambina, subito redarguita dalla donna accanto a lei dai lunghi capelli scuri e unti e dal viso scavato e smunto. Nell’angolo più lontano del locale un uomo robusto e palesemente ubriaco stava discutendo con una ragazza dall’aria sconvolta. Alex non sentiva bene cosa diceva il ragazzo ma gli sembrò di capire che si stesse scusando di qualcosa, incolpando alcool e gelosia. La ragazza continuava a fissarlo negli occhi sempre più sconvolta e sull’orlo di un pianto.

Ma da dove era sbucata tutta quella gente? Si domandava Alex.

Erano sicuramente già lì quando lui e Charles erano entrati, eppure fino a quel momento non li aveva minimamente notati.

Subito dopo, un forte odore di incenso, come quello che viene utilizzato nelle chiese, invase la stanza.

Charles rimase a bocca aperta. Il bagno, se così si poteva chiamare, era un piccolissimo ambiente maleodorante, dal forte odore di urina. Al posto della porcellana bianca c’era una grata rugginosa che sgocciolava chissà dove, addossata ad un muro ricoperto per circa un metro di mattonelle giallognole coperte di chiazze scure. La vescica che continuava a dolergli prevalse sul senso di nausea che lo assaliva, così si distanziò dal muro e mirò la grata.

Charles tornò velocemente indietro, ansioso di descrivere all’amico la situazione grottesca in cui si era ritrovato.

Sorridendo si sedette accanto ad Alex.

-Non hai idea di che situazione, Alex- disse

-È stata un’avventura arrivare in bagno, ora ti racconto, ma… Hey, perché non hai ordinato anche due whiskey?- Poi fece per chiamare la vecchia.

-Zitto- disse a bassa voce Alex bloccandogli il braccio.

-Bevi veloce e andiamocene-

-Perché? Ma che c’è? Hai una faccia…-

-Guarda che posto allucinante, è da quando siamo entrati che ho una strana sensazione. Senti che silenzio, tutto sembra muoversi a rallentatore- ormai Alex sussurrava a tal punto che Charles faticava a sentire.

-E poi annusa. Annusa l’aria-

-Ma che roba è? Incenso. Incenso da chiesa- anche Charles adesso, guardandosi intorno, perse il sorriso.

-Forse hai ragione te, beviamo e andiamocene-

Entrambi, perfettamente sincronici si voltarono verso l’orbo, che riabbassò lo sguardo.

-E quello? Hai visto come ci fissava? Con quell’occhio… la barista con la gobba, ma dove diavolo siamo?- Charles rabbrividì

Un chiarore alle loro spalle li fece voltare sugli sgabelli. Nell’angolo vicino al tizio ubriaco c’era un piccolo camino in pietra, al suo interno decine di lumini rossi rischiaravano l’ambiente.

-Guarda che roba- Alex indicò con la testa la parete sopra al caminetto. Quasi del tutto spoglia, gli unici pezzi d’arredamento erano una maschera in legno dalla forma allungata e una foto, che ritraeva un caprone sulla cima di una scogliera con l’oceano in tempesta sotto di sé.

-Io me ne vado-disse Charles, -Lascio la pinta a mezzo e schizzo fuori-

-Aspetta, finiamo prima. Cerchiamo di sembrare naturali e tranquilli-

Impossibile, erano come farfalle multicolore in un quadro in bianco e nero.

Improvvisamente un raggio di sole entrò dalla finestra, illuminando il pavimento scuro, quasi nero, di piastrelle ottagonali. Alex e Charles adesso si accorsero anche della strana architettura del posto, che sembrava formare un triangolo irregolare.

Questa luce naturale e inaspettata sembrò comunque rincuorare i due, che dettero una lunga sorsata di birra, come se stessero riprendendo ossigeno.

Subito la vecchia uscì dal banco e claudicante arrivò alla finestra, che tappò tirandone la tenda, poi lentamente ritornò dietro al banco sparendo dalla porticina che dava sul retro. Il locale ripiombò nella penombra, illuminato solo da un piccolissimo lampadario in stile barocco al centro del soffitto, e i volti dei due amici tornarono scuri quasi come il pub.


-Proprio adesso che abbiamo finito di bere e ce ne possiamo andare, la vecchia è sparita- disse Charles

-Ascolta- disse Alex tendendo l’orecchio.

Adesso da dietro la porta, si sentiva flebile una musica. La musica si sentì più forte quando la porta si riaprì dando nuovamente l’accesso alla barista gobba. Lenta e ripetitiva, questa nenia sembrava accompagnare qualcosa, aveva un che di rituale, di magico.

Subito Alex colse l’occasione al volo e pagò le due pinte ad un prezzo davvero basso, mentre l’orbo annuendo alla vecchia si faceva passare una bottiglia da mezza pinta di whiskey. Sembrava che non servissero più le parole tra loro.


I due salutarono e velocemente si diressero verso la porta.

Alex afferrò la maniglia e tirò per uscire. Chiusa, la porta non ne voleva sapere di aprirsi, allora Alex spinse. Niente. Cominciò a tirare e spingere la porta che tintinnava sui cardini sempre con più foga. L’avrebbe completamente divelta se Charles non lo avesse fermato.

-Schiaccia la levetta sopra la maniglia- gli disse.

Alex seguì il consiglio e furono finalmente fuori all’aria, inondati dalla luce del sole. Senza parlare cominciarono a camminare velocemente verso la piazza del paese, mettendo più strada possibile tra loro e il locale.


Dentro il pub l’attività riprese.

La madre suicida con la figlia soffocata nel sonno sarebbero state le prossime a varcare la porta dietro il banco, seguite dall’ubriaco e dalla compagna accoltellata a morte per gelosia.

L’orbo rimase fermo al suo posto, attendendo ignavo il suo turno come aveva fatto per tutta la vita, cominciava a pensare che la sua punizione fosse proprio quella.

La vecchia prese per mano la bambina, seguita dalla madre le accompagnò verso la porta, attraversando la stanza.


D’un tratto Alex e Charles ebbero la certezza che prima o poi sarebbero tornati in quel pub. Non riuscivano a spiegarsi perché ma quella era la certezza più grande che avessero avuto in vita loro.


Dentro l’anticamera la vecchia gobba sorrise tra sé e sé.


lunedì 15 febbraio 2010

'Fanculo il Messico

Fisher chiama Colombo alle tre del pomeriggio. Fa sempre così. È l’unico modo per contattarlo. Niente indirizzo, niente informazioni, solo un numero di cellulare. Il sudore appiccica la camicia sulla schiena dell’inglese. Non si è mai abituato al clima anche se sono anni ormai che lavora in Messico. Potremmo definire l’attività di Fisher come un agenzia di collocamento criminale. Conosce tutto e tutti e dà lavoro ad almeno una trentina di delinquenti vari, passando loro i lavori che gli vengono richiesti e prendendoci sopra una percentuale; chiaramente. Rapinatori, Killer, rapitori e tutta la crema della criminalità messicana è nel libro paga dell’inglese.
Si massaggia distrattamente il cavallo dei pantaloni mentre compone il numero. Un grosso bicchiere di whiskey annega tre cubetti di ghiaccio sulla scrivania, da ottocento dollari almeno.

Colombo recupera Enrique da casa. Un bel posto, villette a schiera in un complesso residenziale. Nessuno immagina il lavoro che fa il proprio vicino di casa. Quel giovanotto così gentile dai modi educati e dall’aspetto curato.
Ferma il Mercedes grigio scuro e suona tre colpi di clacson. Braccio fuori dal finestrino. La camicia hawaiana semiaperta lascia intravedere il tradizionale giapponese sul petto, dai colori sgargianti. Colombo sbuffa e accende una cicca d’erba.
Erba messicana.
Enrique esce cinque minuti dopo. Completo scuro di lino su scarpe lucide leggermente a punta. Camicia verde smeraldo stirata con cura. Profuma di dopobarba. Monta in macchina e infila il cd. Johnny Cash canta di omicidio e cocaina.
La cenere cade sui bermuda di Colombo.

Parcheggiano davanti al residence. Salgono le scale e suonano una sola volta. Marlene viene ad aprire la porta. Sorriso bianco, vestaglia di seta azzurra con ricami floreali color pastello che mette in risalto i grossi seni dai capezzoli turgidi. Ha i capelli leggermente spettinati. Fisher deve averci giocato da poco.
Saluta e li fa accomodare sul divano in pelle bordeaux. Uno schermo a quaranta pollici rimane spento sulla parete.
Marlene versa da bere. Whiskey, molto ghiaccio. Liscio per Enrique. Sparisce, dietro una porta che chiude piano.

Il legno delle scale a chiocciola scricchiola appena sotto i piedi nudi di Fisher. Anche lui in vestaglia. Oro arrogante e arabeschi neri. Beve con loro e vomita parole banali. I due si chiedono quando parlerà del lavoro.
L’inglese sembra capire i loro sguardi e attacca.
-Beh, ragazzi. Le cose stanno così: Tre tipi, spacciatori di poco conto, si sono messi sul mercato espandendo il giro molto velocemente. I tre stronzi hanno sconfinato nella zona di Don Carlos, senza saperlo. Ma questo non interessa al Don.
Stranamente, invece di farli fuori, gli ha affidato un compito. Come risarcimento diciamo. I tre devono fare uno scambio per lui, dollari americani per diamanti grezzi. Tutto questo per non ritrovarsi una pallottola dentro la loro testolina. Un lavoretto semplice semplice.-
-Perché mai Don Carlos si fida dei tre stronzi? È cosa c’entriamo noi?- Colombo si accende una seconda cicca d’erba mentre interroga l’inglese con lo sguardo.
-Beh, perché si fida non lo so. Sono cazzi suoi. Probabilmente perché nessuno che ha un minimo di cervello cercherebbe di fottere Don Carlos. Metà del Messico è sotto il controllo dei suoi uomini e nell’altra metà chiunque gli deve un favore… E dove scappi? Comunque… Quando i tre hanno saputo che lo scambio dovevano farlo con gli uomini di Mauricio Brama se la sono fatta sotto. Hanno quindi deciso di venire a chiedere aiuto a zio Fisher, affinché gli trovassi dei validi sostituti. Ed ecco cosa c’entrate voi. Andate all'incontro, recuperate i diamanti e li portate ai tre messicani. Tornate da me e intascate la ricompensa. Tutto qua.-
Fisher finisce i dettagli, Enrique il terzo whiskey, Colombo la seconda cicca. Si alzano lenti, affaticati dal caldo e raggiungono l’uscita. Ultima occhiata alla stanza: dalla porta a vetri che da sul giardino con piscina, entrano cinquanta chili di curve abbronzate dal sole. Bikini rosa che lascia poco all’immaginazione. Dal triangolo di destra, leggermente spostato, spunta fuori l’aureola scura del seno.
Susy. La seconda amica di Fisher. Uomo fortunato.

Le pale del ventilatore girano lente muovendo l’aria calda.
Tequila e pezzi di lime sul tavolo scheggiato dall’uso.
Ricardo sembra un fagotto flaccido e vuoto così accasciato ad un angolo della stanza. La pancia aperta ha smesso già da tempo di sanguinare. L’impugnatura in madreperla della 44 ancora stretta in mano. Quarantatre gradi. Sembra di stare dentro un forno.
Colombo versa un altro shot. La tequila gli brucia la gola. Morde un pezzo di lime e sorride sputandone la buccia.
Trenta centimetri; lama rossa di sangue, dormono accanto alla bottiglia. Trenta centimetri che sono entrati tutti nella pancia di Ricardo.
La porta si apre lentamente. Enrique entra nella stanza in penombra, unico vano della capanna che funziona da bar, non lontana dalla città. Lo sguardo va veloce da Ricardo a Colombo, che a stento riesce a rimanere sulla sedia. Buco di 44 in pancia. Poche speranze. Al massimo altri due shot. Enrique si avvicina al tavolo. I tacchi di cuoio duro risuonano sul pavimento di assi di legno. Con movimenti lenti versa due tequila, ne passa una a Colombo e butta giù l’altra tutta d'un fiato. Niente lime per lui.

Il ventilatore muove invano l’aria, appiccicosa come caramello. Colombo solleva gli occhi e fissa la canna della pistola che Enrique gli ha puntato in faccia. Sorriso amaro. -Sarebbe solo questione di tempo, amigo. Quel buco in pancia non mi lascia scelta. È solo per avere la certezza che nessuno ti trovi prima del tempo che ti ci vuole per tirare le cuoia, e ti costringa a parlargli di me. Lo sai anche tu come vanno certe cose, vero?-
Colombo annuisce. Ultimo shot. Boom.

Non che provi così dispiacere per Colombo, in fondo stavano insieme solo per lavoro, e poi, da queste parti, la vita vale sempre poco.
Il barista è steso come uno straccio bagnato, a cavallo del bancone. Era d’accordo anche lui o cosa? Mentre Colombo affondava la lama nella pancia di Ricardo, e si prendeva la sua brava pallottola, il bastardo ha tirato fuori da sotto il banco un fucile a pompa, di quelli con le canne segate.
Enrique già pronto, appena fuori della porta del bar.
Due pallottole per il tipo sulla porta e due per il barista.
Ma che cazzo c’entrava il barista?

Uscendo scavalca il cadavere toccandolo appena con la punta della scarpa. Distanza ravvicinata. Buchi grossi come lime.
Tre contro due. Ne è uscito uno soltanto. Chiude la porta e se ne va.

Enrique guida veloce già da un'ora buona lungo la strada polverosa. Johnny Cash canta la sua ultima storia dalle casse delle stereo. Prima di mezzanotte deve essere a Guadalajara e davanti a sé ha almeno tre ore di viaggio. Lì, lo aspettano i mandanti dello scambio, tre coglioni messicani che non saprebbero distinguere i diamanti da pezzi di vetro.
Adesso Enrique conta di arrivare sul posto più presto possibile, rifilare i diamanti ai tre messicani, tenersi i soldi dello scambio che non è andato a buon fine e passare da Fisher per il compenso. Poi, sparire veloce dal Messico. La bomba ormai è innescata e lui vuole essere più lontano possibile quando scoppierà.

Il cellulare squilla tre volte prima che Enrique risponda.
-Enrique?-
-Si, dimmi- È uno dei tre messicani a parlare.
-Abbiamo un problema, dobbiamo spostare l’incontro a domani mattina… se per lei va bene- La voce tremante del tipo lo irrita. Voce insicura, piena di paura di chi non sa cosa sta facendo. Di chi sa che la faccenda è più grande di lui.
-Va bene- Risposta secca e riattacca.
Altri cinque chilometri lungo la solita strada polverosa. Il paesaggio che lo circonda ha un che di irreale. Sabbia e cactus. Rallenta la macchina e svolta a destra. Entra nel parcheggio del motel. Scende dall’auto e viene investito da un caldo infernale. Quarantacinque gradi. Sono le nove di sera… che cazzo di posto.
Spinge la porta che cigola sui cardini come lamentandosi di essere stata disturbata. Il cicalino fa il suo dovere.

L’ingresso del motel è ancora più fetido della facciata esterna. Due poltrone e un divanetto stanno in piedi per miracolo sul lato destro della stanza, illuminata a stento da un lampadario mezzo scassato. Odore di sigaro e tacos nell’aria.
Di fronte a lui c’è un piccolo banco, con dietro un ciccione a due centimetri da un ventilatore portatile.
Il ciccione biascica qualcosa che pare un saluto, passandosi, da un lato all’altro della bocca, il mozzicone di sigaro che spunta da sotto i folti baffi grigi. Canottiera chiazzata di unto.
È lui che puzza di tacos. Tacos e formaggio rancido.
Enrique legge il cartello delle tariffe. Lascia una banconota per la stanza e una ancora per la bottiglia di tequila. Il ciccione gli passa una chiave, biascica ancora qualcosa e torna a puntare lo sguardo sul minuscolo schermo accanto al ventilatore.
Dal quale escono pessime battute e risate registrate.
Sembra che il ciccione abbia detto che la bottiglia gli sarebbe stata portata in camera, quindi Enrique prende la chiave e sale le scale.

La camera rispecchia pienamente l’infima qualità del posto.
La vernice sulle pareti è ingiallita dal tempo e in alcuni punti si stacca, lasciando scoperto l'intonaco bianco. Il letto sembra aver vissuto molto più di Enrique. Il copriletto di cotone grezzo pare essere uscito direttamente dagli anni ’50 e odora di vecchio e stantio. Insomma, un bel letto di merda. Almeno è a due piazze.
Enrique si toglie giacca e camicia con l’idea di una doccia gelata.

Bussano alla porta. Un toc-toc lieve, quasi sussurrato dal legno. Apre e si ritrova davanti una ragazza dai capelli corvini. Il vestito beige, che le scende fino a sopra le ginocchia, è stretto sul petto. Il sudore ha formato due piccole chiazze a mezzaluna sotto il seno. Gli occhi verdi della ragazza si incollano sulla faccia di Enrique. Occhi strani, quasi cattivi che contrastano con la corporatura minuta e indifesa. Particolare importante… La ragazza ha una bottiglia in mano.
-La sua tequila signore- La voce è dolce come il miele. Quattro parole sussurrate come una ninna nanna.
-Grazie. Ma tu chi sei?- Enrique afferra la bottiglia e si scosta un poco dalla porta. Come a volerla fare entrare.
-Pita, la figlia del padrone del motel- Risponde. La voce sembra, se possibile, ancora più dolce. Ha un che di sensuale. Lei non accenna a fare un passo. Continua invece a guardare dritto negli occhi Enrique. Come se lo odiasse. Uno sguardo così intenso, duro e freddo che infastidisce un poco l’uomo. Eppure per qualche motivo ne è attratto. Quel corpo esile. Quella voce mielosa. Quegli occhi da killer.
-Vuoi entrare a bere qualcosa?- Lei non risponde, muove un passo dentro la stanza. Abbassa lo sguardo e si ferma. Poi entra con uno scatto improvviso. Enrique sente arrivare l’erezione, stretta nei pantaloni. Apre la bottiglia e lei allunga il braccio porgendogli due bicchierini da shot. Neanche se ne era accorto che li aveva in mano. Due bicchierini da shot. Due.
Lei si siede sul bordo del letto sempre col braccio teso. Tiene i bicchieri in modo che lui possa direttamente versarci la tequila dentro.
Tiene la testa bassa ma gli occhi, rivolti verso l’alto, non smettono mai di fissarlo. Sorride. L’espressione del volto, in quella strana posizione, assume un’aria sinistra ed eccitante allo stesso tempo. Enrique versa. Poggia la bottiglia sul piccolo comodino e prende uno dei due bicchieri. Adesso anche lui la sta guardando fissa negli occhi. Alza appena il bicchiere a mo’ di brindisi e butta giù d’un fiato. Lei fa lo stesso.

Sedendosi il vestito le si è alzato un po’, lasciando vedere le cosce brunite dal sole. Enrique le fissa. Lei se ne accorge e lo lascia fare.
Si alza di scatto, si avvicina alla bottiglia e dà un sorso. Righe di tequila le colano dai lati della bocca.
Non si pulisce.
Enrique le si avvicina e senza dire nulla bacia una di quelle righe saggiandone il sapore con la punta della lingua. Stacca la testa dal viso e passa all’altra riga.
Appena le appoggia le labbra vicino alla bocca, lei si gira di scatto per morderlo, poi scappa via veloce. Enrique si è scostato appena in tempo, prima che il morso si serrasse sulla guancia. Si tocca il viso nel punto dove la pelle è stata graffiata dai denti. Una piccola ferita comincia a sanguinare. L’erezione aumenta.

Il letto cigola ogni volta che Enrique si rigira tra le lenzuola appiccicose. La notte è rischiarata da una luna candida mentre le cicale friniscono tra gli spini dei cespugli. Il sonno è stato interrotto più volte dai pensieri che non gli abbandonano la testa.
Ancora non capisce cosa diavolo stia succedendo. Perchè questa guerra intestina tra chi ha il mercato in mano. Non avrebbe senso dar vita ad una di quelle lotte che durano fino alla fine di ogni uomo, per espandere il proprio mercato. Le perdite sarebbero sicuramente maggiori dei ricavi.

Enrique si alza dal letto che sembra un forno. Si avvicina lento alla bottiglia che ormai ha raggiunto la sua metà. Mentre beve un lungo sorso, con l'intenzione di stordirsi e riuscire a dormire, bussano alla porta.
Va ad aprire ritrovandosi davanti la figlia del padrone.
Pita non parla ed entra in stanza senza far rumore.
Quegli occhi di ghiaccio nel corpo abbronzato.
Senza dire una parola si avvicina ad Enrique e fa per baciarlo.
-Non avrai ancora intenzione di mordermi?- Dice mentre instintivamente fa un passo indietro.
La ragazza lo guarda, inclinando leggermente la testa. Poi abbassa gli spallini del vestito e lo lascia scivolare fino alle caviglie. Enrique osserva il corpo nudo della ragazza, poi le si avvicina spingendola verso il letto.
La pelle sudata di Pita gli ricorda il sapore aspro del lime, mentre si lascia accarezzare il volto dai seni pesanti. Adesso la piccola messicana danza sul ventre di Enrique che asseconda i movimenti con ritmo regolare. I due corpi sono diventati uno solo.

Enrique si addormenta, stancato dalla passione. Finalmente i pensieri sono stati allontanati dalla magia della ragazza che stesa accanto a lui, fissa il soffitto senza mai chiudere gli occhi. Quegli occhi da killer... Sorride nella stanza buia.

Un rumore metallico risveglia Enrique. Un rumore che gli è familiare, che ha già sentito più volte. Apre gli occhi, mentre la ragazza fa scorrere il carrello di una pistola. Colpo in canna... Canna vicina alla fronte di Enrique.
Merda!
Prova d'istinto a muoversi accorgendosi di avere le mani legate alla spalliera del letto.
-Che diavolo stai facendo?- Pita è ancora nuda. Sopra di lui si muove piano sfregando il bacino contro quello di Enrique. Lo fissa negli occhi, sorridendo con la testa di lato. Enrique si stupisce di quanto in fretta arriva una nuova erezione, mentre la canna della pistola gli si appoggia alla fronte sudata.
La ragazza si muove ancora. Si sistema meglio.Adesso dà colpi secchi mentre Enrique non capisce se sta morendo o scopando.

Pita si muove sempre più forte. Mentre il letto cigola, Enrique si accorge che lentamente il laccio che stringe il polso destro si sta allentando. Comincia allora a muoversi freneticamente per coprire gli strattoni della mano. Il laccio sembra cedere ad ogni colpo. Dai cazzo... Dai!
La canna della pistola batte ritmicamente sulla sua fronte. Lei chiude gli occhi e geme. Poi torna a fissarlo, la testa sempre di lato. Adesso è vicinissima a lui tanto da poter sentire il suo alito caldo sulla faccia, mentre lei lecca il cane della pistola. Enrique è frastornato. Non riesce a capire se questa pazzia è una perversione della ragazzina o davvero alla fine si ritroverà un buco in testa.
Il laccio cede abbastanza da permettergli di far scivolare fuori la mano. Ancora pochi colpi e il rito sarà finito. La piccola messicana dalla pellle color del bronzo adesso gode e non lo nasconde. Non regge agli spasmi e chiude gli occhi contraendo il viso in una smorfia di soddisfazione. Un gesto fulmineo e la pistola non è più nella sua mano. Lei riapre gli occhi, lo sguardo sconcertato di chi ha perso una partita già vinta. Urla... Un urlo secco... Uno solo. Non un urlo isterico, da ragazzina impaurita, ma di richiamo... Di avvertimento. Questo Enrique lo capisce subito e gli dà col calcio della pistola sulla bocca. Un fiotto di sangue gli investe la faccia. Adesso la ragazza zampilla sangue come una fontana. Enrique ha ripreso il gioco in mano. È lui il killer. È lui il cacciatore, gli altri solo deboli prede. Per questo continua a darle dei colpetti col bacino, attendendo impaziente il coito, mentre la pistola si macchia di rosso, appoggiata sulla bocca di lei.
Andiamo Pita, muoviti adesso... Muoviti ragazza!
-Slegami l'altra mano adesso- Lei non parla, continua a guardarlo negli occhi come se fosse lei ad avere il controllo, mentre dalla bocca esce ancora un rivolo di sangue. Sembra non voler neanche prendere in considerazione l'ordine di Enrique e comincia a muovere di nuovo il bacino lentamente passandosi la lingua sul labbro rotto. -Ti ho detto di slegarmi la mano. Subito- Preme più forte la canna contro la bocca di Pita che inaspettatamente la apre e comincia a succhiarla.
Sei completamente pazza, ragazzina!

Nonostante la situazione surreale, Enrique, non riesce a non stare al gioco della ragazza che sembra averlo stregato. Mentre continua a muoversi, sulla porta appare il ventre flaccido del padrone del locale. Come se fosse una cosa del tutto normale, trovare sua figlia nuda che succhia una pistola sopra un uomo, il ciccione entra nella stanza alzando il braccio che tiene la pistola.

Esce dalla doccia. Indossa il suo completo di lino e tira fuori da sotto il letto la valigetta con i pezzi di vetro. Pita è legata al letto come lo era lui fino a poco fa. Non si è scomposta neanche un po' mentre Enrique sparava al ciccione ed ha atteso paziente che lui arrivasse all'orgasmo. Un ultimo sguardo alla ragazza. A quegli occhi malati, folli, ed esce dalla stanza. Monta in macchina e parte.

Chissà, forse non era suo padre.



Enrique ripensa al lavoro che deve finire, in quale cazzo di situazione si è ritrovato. Qui qualcuno sta creando un grande casino e lui non ha nessuna voglia di finirci dentro.
La macchina inchioda a tre chilometri dal motel e fa inversione.

Enrique apre la porta della stanza. Pita è ancora legata al letto.
Lei lo guarda senza dire niente, i suoi occhi sembrano bruciare sempre di più di un'insana febbre.
Non si chiede perchè volessero fargli la festa, non gli interessa più ormai.
-Cosa farai Pita? Cosa farai se non ti slego e ti lascio qui da sola?-
-Non lo so- Risponde la ragazza.
-E cosa farai se ti libero?-
-Verrò con te-

Il sole sta per calare e tutto si è tinto di arancione scuro. La macchina sfreccia veloce verso il confine del Messico con la valigetta piena di soldi e diamanti, ben nascosta sotto il seggiolino del passeggero.
Enrique stringe il volante con una mano sola e butta giù un bel sorso di tequila.

Pita lo guarda appena, mentre gli occhi gli si chiudono dal sonno.

'Fanculo Fisher, 'fanculo Don Carlos e 'fanculo Mauricio Brama... '

'Fanculo anche il Messico.


martedì 9 febbraio 2010

Il seme dell'odio: Capitolo XIII -Jeremy-

Un romanzo breve di:
Jack Lombroso & Jonathan Macini

Ogni settimana un capitolo tutto per voi,
qua su Novocaina
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CI TENIAMO A PRECISARE CHE I CONCETTI ESPRESSI NEL RACCONTO "IL SEME DELL'ODIO" NON RISPECCHIANO NE' LA MENTALITA' DEGLI AUTORI DEL BLOG NE' TANTOMENO QUELLA DEGLI AUTORI DEL RACCONTO.
RITENIAMO CHE OGNI FORMA DI RAZZISMO SIA TERRIBILE E INVOLUTIVA PER TUTTA LA RAZZA UMANA.
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La voce è tornata a parlare.
Sono passati cento giorni dalla visione nella grotta, dall’incontro con il padrone. Si è manifestato puntualmente dentro di me, alle sei di ogni giorno, o quasi, ma non mi aveva più omaggiato della sua presenza. Ieri notte mi ha convocato davanti a quell’assurdo brodo di sangue, il mare rosso del deserto. Ma questa volta è stato bellissimo.
Sono io il prescelto. Adesso lo so. Jeremy e Bud erano lì per puro caso. Ci ha giocato per un po’, ma era normale che prima o poi si stufasse di loro. Eliminare Bud è stato facile. Lo ha lasciato al suo destino, il destino di un pazzo. Jeremy invece lo ha dato in pasto al suo nuovo discepolo. Come gliene sono grato…
Le immagini mi tornano nitide come non mai. È lui che mi omaggia di tutto ciò, anche se il rituale è stato appena compiuto. Ci ha convocati insieme, come ogni volta. Non la spiaggia. Sarebbe stato troppo pericoloso, con tutta la polizia che gira a vanvera sul litorale. Siamo andati un po’ fuori. Ci ha trovato un posticino grazioso, sulla statale per Pittsburg.  Una stazione di servizio chiusa. Eravamo indisturbati, quieti, rilassati. Si, è così che lo ricordo.
Jeremy si sveglia improvvisamente. Non si capacita. Perché è sveglio proprio adesso, che mancano solo cinque minuti alle sei… Che diavolo ci fa in una stazione di servizio deserta, col buio alle porte, insieme al suo migliore amico?
Ma il suo migliore amico non è sveglio come lui. Dorme il sonno del demone. Negli occhi nasconde il desiderio di un pasto. Si avvicina al povero Jeremy. Si, povero Jeremy. Che pena mi fai…
No, adesso non me ne fai più. Perché forse hai smesso di soffrire. Forse…
Mi sveglio alla guida del pick-up di Jeremy. Sono sulla strada per Pittsburg. Mi ci ha messo Lui. Deve avere dei grandi progetti per il suo figliol prodigo. Una scorrazzata in città, e poi magari ci spingiamo ancora un po’ verso est, magari fino a New York. Laggiù c’è tanta bella gente…
Il seme dell’odio è germogliato. Crescerà, darà i suoi frutti, forse metterà altri germogli. Saranno piante ancora più velenose di me. Perché ricordatevi: l’odio genera sempre un odio peggiore. Questa è la sua prima legge.
Guardatevi intorno. Potrei passare dalle vostre parti. Potrei accostare il pick up, scendere, fumarmi una sigaretta, pretendere si essere me. Ma se siamo vicino alle sei, potrei non esserlo. E allora vi consiglio di chiudere a chiave la porta, e di portare in casa i bambini.
È arrivata l’ora di cena, per il mio signore.


 
EPILOGO

Vi è piaciuto sbirciare sotto il velo? Avete goduto delle efferatezze perpetuate a colpi di penna? Magari è tutta finzione, perché non si dovrebbe credere ai demoni. I demoni vanno lasciati alle favole della zia, per divertire i bambini, spaventarli un po’, e poi dare loro il bacio della buonanotte.
La storia di David Norton è una storia di fantasia, pregna però di una macabra realtà. È un esorcismo contro le follie del nostro tempo, perché si conosce il veleno solo se lo si assaggia sulla lingua.
Quanti potenziali David Norton ci sono, nelle tranquille cittadine della sorridente America, ai tempi del declino dell’impero? Quante bombe a orologeria stanno per esplodere? Quanta altra violenza verrà seminata?
Pensateci, mentre riabbassate il lenzuolo, degustando le ultime gocce di brutalità in confezione spray…

martedì 2 febbraio 2010

Il seme dell'odio: Capitolo XII -Il Mare color del sangue-


Un romanzo breve di:
Jack Lombroso & Jonathan Macini

Ogni settimana un capitolo tutto per voi,
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RITENIAMO CHE OGNI FORMA DI RAZZISMO SIA TERRIBILE E INVOLUTIVA PER TUTTA LA RAZZA UMANA.
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Il freddo mi penetra le ossa mentre il gorgoglio che proviene dal pozzo aumenta sempre più di intensità. D’un tratto una colonna d’acqua si alza dal centro del pozzo. Sarà alta almeno tre metri ed erutta con una forza incredibile. Il getto colpisce il soffitto e ricade giù, scaraventandomi a terra.

Mi ritrovo a sedere, zuppo come una spugna. Le gocce che mi scivolano sulla pelle e mi entrano in bocca sono salate. È acqua di mare. Acqua di mare in pieno deserto. La colonna continua a fuoriuscire dal pozzo e lentamente si colora di rosso. L’acqua è diventata sangue, mi tinge di porpora, si mischia con la sabbia, creando una fanghiglia nauseabonda. L’odore toglie il respiro, un misto di dolce e salato che satura l’aria del tempio. Non ho più fiato, la mia testa inizia a girare e la vista mi si annebbia. Sono ormai certo di morire…

Devo aver perso i sensi. Sono disteso a terra, solo. C’è molta umidità nell’aria e avverto ancora quell’odore dolce e salato. Riesco finalmente ad aprire gli occhi e mi accorgo di non essere più nel tempio. Sono invece su una duna di sabbia, simile a quella che nascondeva la vallata con la caverna. Ora che ci faccio caso il paesaggio è esattamente uguale a quello. Mi alzo in piedi, non ho più la divisa addosso. Sono completamente nudo.
Un nuovo gorgoglio coglie la mia attenzione. Mi avvio a piccoli passi verso la cima della duna. Non riesco a capire perché, ma mi sento molto stanco. Faccio una fatica tremenda a muovere un passo dietro l’altro.
Finalmente arrivo in cima alla duna. Non credo ai miei occhi…
Davanti a me si stende un mare rosso. Un mare sanguigno nel mezzo al deserto. La vastità dell’acqua è tale da non poterne vedere la fine.
Improvvisamente mi giunge una voce. Viene dal fondo di quel mare rosso. La lingua è sconosciuta ma comprendo ugualmente il significato di ogni singola parola. La voce gorgoglia come se parlasse attraverso lo sciabordio delle onde. Come se fossero le onde stesse a parlare.
- Ti ciberai dei bulbi affinché io possa vedere tramite te il terrore che mi genera. Affinché da quel terrore io possa crescere ancora. Alimenterai le mie acque con le gocce di vita che strapperai ai predestinati, quando io te lo ordinerò. Da adesso prenderai il posto dei sacerdoti che hai sterminato. Lo farai perché io te lo ordino. Lo farai perché altrimenti ogni tuo sogno sarà abitato dalle mie onde. Perché altrimenti la tua anima vagherà per sempre tra le mie acque. -
Un’onda mi travolge. Vengo risucchiato dai flutti di quel mare. Cerco di prendere ossigeno, ma alla prima boccata ingoio soltanto acqua rossa. Ha il sapore del sale e del sangue marcio. Vengo trascinato verso il largo. Accanto a me sfilano centinaia di corpi. Galleggiano nell’acqua, mi danzano attorno, sembrano osservarmi ma sono tutti privi di occhi. Alcuni si aggrappano alle mie gambe, tirandomi giù, ed io non ho la forza ti liberarmi. Uno di questi afferra la mia testa e mi fissa con le orbite vuote.
- Io sono Ilu Limnu. Io sono il mare primordiale, la creazione prima, la forza distruttrice. Io risiedo in ogni goccia dei mari della terra, in ogni granello di sabbia, in ogni sogno. Io sono Ilu Limnu, padrone tuo. -
Quando riapro gli occhi sono nuovamente nel tempio. Respiro affannosamente, come se fossi stato per molto tempo senza aria. Indosso la mia divisa e sono completamente fradicio. Mi guardo intorno. Cerco i miei compagni e li trovo accasciati sui gradini. Tossiscono e riprendono anche loro fiato.
Cosa diavolo è successo? Anche Bud e Jeremy hanno vissuto lo stesso mio incubo? Vorrei poterglielo chiedere, ma un conato mi assale. Piegato in due, vomito acqua mischiata a sangue.

- La prossima settimana l'ultimo capitolo -

lunedì 25 gennaio 2010

Il seme dell'odio: Capitolo XI -Il Caffè-



Un romanzo breve di:
Jack Lombroso & Jonathan Macini

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- Hai sentito? Hanno beccato Bud -
Mastico lentamente la ciambella. Pregusto la tazza di caffè fumante. Incollo lo sguardo allo specchio dietro il bancone del Dell’s che riflette quella testa di cazzo di Jeremy.
- L’ho saputo ierisera. Ti ricordi TJ, quel negro che si fumava di tutto? Mi ha mandato una e-mail. Come cazzo avrà fatto, mi chiedo. Tipi così non sanno nemmeno scrivere. Comunque, mi parlava del reggimento, dei vecchi compagni, e del fattaccio. Nessuno ha sparso la voce ovviamente. Se lo venissero a sapere sarebbe un brutto affare… -
La voce di Jeremy mi irrita più del solito. Stacco un altro bel pezzo di pasta fritta zuccherosa e continuo a guardare davanti. C’è un mucchio di gente nel locale. Cazzo di gente…
- Comunque, mi ha detto che di punto in bianco, senza motivo, si è avventato sul sergente Morrison. Lo ha buttato a terra e gli ha strappato un occhio coi denti, prima di essere interrotto da un proiettile che lo ha colpito alla spalla -
Finalmente si beve il suo cazzo di caffè macchiato. Ci mette il latte come un poppante. Oggi proprio non lo sopporto. La ciambella è finita. Adesso il momento è topico. La sbobba che servono in questo bar è la migliore di tutta la Pensilvanya. Una miscela robusta che però ti lascia qualcosa di esotico in bocca. Si, è proprio perfetto…
- Ma un colpo non è stato sufficiente a fermarlo. Quattro soldati si sono avventati su di lui, e Bud se li è scrollati di dosso come moscerini. Poi si è tuffato di nuovo sul sergente. A quel punto però Morrison, anche con un occhio solo, ha avuto il tempo di recuperare il suo M 15. Glielo ha scaricato addosso, pace all’anima di quel bastardo -
- Amen - dico io. E mi finisco il caffè. Una meraviglia.
- Hai saputo nulla di ieri? -
Ma non se ne sta zitto un minuto questo qui. Spero tanto che si cacci in un bel guaio. Che lo prendano, e lo sbattano su quel dannato lettino, a fargli la punturina fatale. Non m’importa più…
- Due turisti europei. Sul lago. Adesso è pieno di polizia laggiù. Pensano che il pazzo si aggiri sulla spiaggia. Speriamo non Gli venga voglia di rifarlo laggiù, altrimenti facciamo la fine di Bud -
Stronzo! Non riesci a capire la sinfonia… È un movimento intestinale, un flusso continuo che viene dall’abisso e risale, t’invade la testa come mille pompini. Jeremy, sei proprio sterco di vacca. Ecco cosa sei. Non sei degno di Lui. E Lui ti farà fuori.
- Cazzo David, io ho paura! -
Questo non lo dovevi dire Jeremy. No, non lo dovevi dire…
- Paura di cosa? - domando.
- Ho paura che ci prendano. A Lui non gliene frega un cazzo se ci prendano o no. Come con Bud. Faremo la sua fine -
- No che non facciamo la sua fine. Bud era spacciato fin dall’inizio. Era uno stronzo, e lo sai bene anche tu! -
Finalmente si è zittito. Finisce il suo brodo di caffelatte e paga il conto. È l’unica cosa buona di oggi.


- La prossima settimana il capitolo 12 -  

giovedì 14 gennaio 2010

Il seme dell'odio: Capitolo X -Interruzione-


Un romanzo breve di:
Jack Lombroso & Jonathan Macini

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- Interruzione -
Scosto la piccola porta, che si apre senza fatica. Dall'interno arriva una debole luce, forse candele. Mi chino e oltrepasso la soglia. All'interno centinaia di ceri rischiarano l'ambiente, un’ampia caverna che assomiglia ad un anfiteatro. Mi accorgo troppo tardi delle tre figure ammantate di scuro al centro dell'arena. Si voltano verso di me. Mi vedono.
Lingua araba urlata con forza, con disprezzo. Non capisco quello che stanno dicendo, ma la mia mano va automaticamente alla sicura del fucile. Sposto appena il dito. CLICK. Il ferro è armato. Rimango tuttavia immobile, perché qualcosa di allucinante attira la mia attenzione. Un quarto uomo, che non avevo notato prima, è chino sul cadavere di un ragazzino. Mormora una litania continua, incomprensibile. Quando smette di salmodiare si volta anche lui verso di me. La sua faccia è stravolta in una maschera contorta e maligna. Un rivolo di sangue gli cola dalla bocca. Sembra guardare verso di me, ma i suoi occhi sono persi nel vuoto.
- Che cazzo facciamo? - Jeremy alle mie spalle mi batte sulla schiena con la canna del fucile.
- Non lo so... Indietro non possiamo certo tornare -
Ancora una volta Bud ci da una dimostrazione di quanto poco cervello abbia.
- Siamo marines dell'esercito degli Stati Uniti d'America. Inginocchiatevi immediatamente e mettete le mani sopra la testa – urla.
L'inferno si scatena.
Non riesco a capire quanti ce ne siano. So solo che ne escono a decine da dietro le colonne che circondano il centro dell'anfiteatro. Il primo sparo parte dalla mia sinistra. Sono sicuro che ci sia Bud. Il resto sono solo grida e deflagrazioni.
Ne cade uno dietro l'altro, mentre cercano di salire gli alti gradini che ci separano da loro. Non sono armati e sulle facce l'espressione è quella di uomini terrorizzati. Eppure continuano inesorabilmente a correre verso di noi, e noi continuiamo inesorabilmente a scaricare i nostri caricatori su di loro. Schizza il sangue che impregna la sabbia ormai rossa, mentre gli uomini sembrano marionette sventrare che crollano come se li avessero tagliato i fili. La signora morte cala prepotentemente il suo scettro.
Tutti stanno urlando, ma uno in particolare attira la mia attenzione. Sta parlando in inglese.
- Non fatelo, non sparate... Dobbiamo finire o Lui uscirà... -
Non capisco molto bene il resto della frase, a cui presto poca attenzione; poi un proiettile gli perfora la gola ed altri quattro o cinque gli si piantano nel petto. Amen.
Tutto lentamente si calma e finalmente torna il silenzio. Si odono solo i nostri anfibi sulla roccia ricoperta di finissima sabbia. Scendo qualche gradino, nessuno sembra essere rimasto in vita. Appena raggiungo la base della scalinata, mi accorgo del pozzo al centro dell'arena. La luce sembra improvvisamente più bassa, forse qualche candela si è spenta nella confusione.
Invece no; mi guardo attorno e sono ancora tutte accese, eppure l’ambiente appare più scuro, come se le ombre avessero divorato la luce. L'aria sta diventando stranamente fredda e sono convinto di sentire il tipico odore salmastro del mare. Impossibile, qui c'è solo un mare di maledetta sabbia!
Mi avvicino ancora di più al pozzo. Un brivido percorre il le mie membra. Adesso fa chiaramente freddo.
Poi un gorgoglio attira la mia attenzione…
- La prossima settimana il capitolo 11 -  

sabato 19 dicembre 2009

Il seme dell'odio: Capitolo IX -La cena del demone-




Un romanzo breve di:
Jack Lombroso & Jonathan Macini

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-La cena del demone-


Il ricordo del rituale sopraggiunge solo dopo qualche giorno. Ha bisogno di risalire l’abisso, scavalcare le barriere della coscienza, insinuarsi nell’intimo (o in quello che mi è rimasto dentro), per poi infine essere decodificato dal cervello. Arrivano brevi immagini, flashback, suoni, urla. Lentamente il puzzle si ricompone nella mia testa. A volte i rituali si mischiano tra loro, un’accozzaglia divertente di macchie sanguigne. Come gli ultimi due, ad esempio. Il vecchio tedesco nella toilette dell’aeroporto e la bambina sulla spiaggia. Gli ultimi due prima di quello di oggi, ovviamente.
Sono davanti al televisore. Non so cosa sia successo tre ore fa. Tre ore fa erano le sei, ed io dormivo, ma qualcosa ha abitato il mio corpo e ha fatto un salto in città. Aveva fame. Forse la TV locale ne parlerà tra poco. Forse…
Ecco che mi arrivano altre immagini. Fotogrammi che si sovrappongono alla pellicola di un vecchio film in bianco e nero. Mio padre è andato a giocare a biliardo coi suoi amici. Mi chiedo come riesca a tirare di stecca con quella pancia. Mia madre sonnecchia sulla poltrona accanto a me. Mi piacerebbe farle del male, solo per sapere cosa si prova. Lei che mi ha generato, che ha sofferto per fare uscire dal suo corpo questo frutto malsano, infilarle il coltellaccio nel gargarozzo, vederle sprizzare tutto quel dannato sangue che deve averci in corpo, e ce ne deve avere parecchio visto quanto è grassa. Poi però dovrei pulire il salotto prima che rientri mio padre, e questo davvero non mi và. Lascio perdere e torno ai miei ricordi.
Jeremy spinge la testa dell’uomo sotto l’acqua. Il lago è freddo, ma non ci badiamo. La bambina urla, poi si volta ed incomincia a scappare lungo la spiaggia. Le lascio un po’ di vantaggio prima di mettermi a correre. La osservo (anzi, è Lui che la guarda attraverso i miei occhi, ed è sempre Lui che mi omaggia di questi gustosi ricordi), la coda bionda che sfarfalla, il vestitino rosso a righe, i piedini nudi sul bagnasciuga. Davvero deliziosa…
La caccia dura meno di un minuto. L’immagine della piccola che si dimena diventa quella del vecchio tedesco, seduto sul cesso immacolato di quel maledetto aeroporto. Profumo di cloro e deodorante. Piastrelle antracite e luci al neon. La mano destra premuta sulla sua gola, un sacco di pelle flaccida ripiena di vene e nervi del cazzo. Lui mi guarda con mille interrogativi negli occhi. Due occhi chiarissimi ed umidi, due orribili occhi da vecchio. A Lui non importa se sono vecchi oppure giovani. A Lui piacciono…
Torna il vestitino rosso a righe. L’acqua fredda del lago, lo sciaguattio e le urla. Piccolina… L’afferro per la coda e le spingo la testa sotto l’acqua. Ha solo cinque anni ma si dimena come un torello. La gambine nude che sbattono inutilmente sulla superficie dell’acqua. Le mani che afferrano i miei anfibi cercando una presa per riemergere. Tutto inutile. Sorrido compiaciuto sul divano. No, non è per via di quel vecchio film che stanno passando alla televisione. Sorrido per il tramonto che ci ha investiti proprio in quell’attimo, un globo rossissimo appeso sopra la superficie del lago, e l’acqua che esplode in mille riverberi. “Oggi il sole tramonta alle 6:03 PM.” Aveva detto quella vocina stridula alla radio. E mi ricordo di aver pensato “Ne sarà felice, Lui.” Sì perché, il rituale è legato al tramonto. Il declino del giorno, l’apertura del mondo delle tenebre, il momento del passaggio.
Avvicino la bocca alla testa del vecchio tedesco. Lui non fiata. Sembra quasi intuire quello che gli sta per succedere. Nessuno ci disturba, ed è un bene. A Lui non piace essere disturbato. Avvinghiato a quel corpo grinzoso seduto sulla tazza del cesso, appoggio le labbra sulle palpebre dell’occhio destro. È sempre l’occhio destro il primo, l’antipasto. È Lui che mi comanda di chiudere gli occhi, di attendere il momento. Le sei puntuali. Il risucchio non proviene dai miei polmoni. Quello è il cibo di Ilu Limnu. Il bulbo quando esce dall’orbita fa un curioso “PLOP”. La vittima rimane viva, si dimena, e spesso diventa difficile continuare il rituale. Ma è sempre Lui che comanda il corpo, e quando la mia forza non basta, ci aggiunge un po’ della sua. La sento arrivare attraverso i muscoli, una vibrazione leggermente dolorosa, un flusso d’energia oscura proveniente dall’abisso. Straordinario…
È la volta dell’occhio sinistro. Adesso il flashback mi riporta sulla spiaggia. La bambina è svenuta tra le mie braccia. Con la coda dell’occhio vedo Jeremy che viene verso di me, il volto imbrattato di sangue e materia grigia. Lui ha già finito il suo pasto…
Il risucchio questa volta è più forte. Dannatamente più forte. Non è solo il bulbo oculare a rifluire attraverso la mia bocca, ma l’intero cervello della piccola. La cena del demone.
Il film in bianco e nero è terminato. Mamma è in cucina a prepararsi l’ennesimo sandwich con la mostarda. Se ne mangia tre prima di andare a dormire. Grassona del cazzo! Prima o poi le mangio gli occhi, penso. Ma purtroppo non sono io che decido.
Ecco, c’è il notiziario. Chissà cosa è successo oggi pomeriggio.

- La prossima settimana il capitolo 10 - 

giovedì 10 dicembre 2009

Il seme dell'odio: Capitolo VIII -La valle del tempio-



Un romanzo breve di:
Jack Lombroso & Jonathan Macini

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-La valle del tempio-


Ci metto un secondo ad addormentarmi. All'inizio i sogni si mischiano tra loro. Tra amici, ragazze, ricordi di infanzia e ricordi dell'inferno di sabbia.
Poi arriva Lui. Si fa largo tra i ricordi sbranandoli senza pietà, e lentamente riporta la mia memoria all'inizio. All'inizio del tutto... La valle del tempio.


- Allora Jeremy. Cosa dobbiamo fare qua? -
- Non ne ho la più pallida idea. Dobbiamo sorvegliare questa merda di posto. Punto e basta. Domani mattina il convoglio tornerà a riprenderci-
Ci hanno scaricati in questa vallata del cazzo tre ore fa, con il compito di sorvegliare... Sorvegliare cosa, mi chiedo. Ovunque volgo lo sguardo vedo solo dune di sabbia e nient'altro. Le tende, una borsa termica coi viveri e quella del primo soccorso è il solo equipaggiamento che abbiamo in dotazione, oltre logicamente a quello di base: corpetto e fucile.
Bud sbuffa scocciato. Tira fuori dallo zaino una bottiglia di whiskey e ci dà una lunga sorsata.
- Cazzo di posto... Beduini di merda -
Non dice altro, si siede su una roccia che sbuca dalla sabbia e comincia a sfogliare una vecchia copia di Playboy. Il tempo passa e il sole continua a incenerirci il cervello. Le immagini in lontananza vengono sfasate del calore che sale dalla sabbia. Tutto assomiglia ad un miraggio confuso.
Dopo il decimo giro di poker con Jeremy mi stufo di quella situazione e decido di allontanarmi un po'. Voglio salire sopra una delle dune che formano la valle e vedere cosa diavolo ci circonda. Così mi allontano, seguito dai sommessi borbottii dei due, a cui non dò la minima attenzione.
- Torno subito, mammole... ecchecazzo -
Mi accorgo di quanto sia lunga questa onda di sabbia solo quando ci arrivo sotto. Le dune in questa parte del deserto sono stranissime. Ad una prima occhiata non appaiono ripide, ma quando cerchi di scavalcarle sembrano infinite. La pendenza è dolce, ma non finiscono mai!
A metà del tragitto decido di abbandonare lo zaino e portarmi dietro solo il fucile. Quello non lo mollo neanche quando dormo. Arrivo finalmente in cima e quello che vedo ha un che di surreale. In ogni direzione si susseguono vallate di sabbia, alcune così profonde che non riesco a vederne la fine. Sembra un enorme onda continua, con al centro enormi crateri dalle curve morbide e lucenti. Il sole mi acceca quando cerco di alzare lo sguardo all'orizzonte, cosicché devo rimanere alcuni secondi con la mano sugli occhi, prima di poter guardare meglio.
Poi riesco a vederli. Vedo... E sono tanti.
- Cazzo, siamo fottuti! -


Sento che mi sto per svegliare. I miei occhi sono quasi aperti. La luce della lampada che ho scordato accesa sul comodino filtra attraverso le palpebre. Poi una voce profonda che sembra gorgogliare sott'acqua invade la mia mente.
- Non ancora David... Torna qua… -
Come se una mano invisibile mi trascinasse via, ripiombo nel nero.


La colonna dei cammelli è formata da almeno venti animali. I beduini sono completamente ricoperti da abiti scuri, che lasciano scoperti solo gli occhi. Ad ognuno di essi, da sopra la spalla, spunta la lunga canna di un fucile. Non riesco a distinguerli, ma ci scommetterei che sono di fabbricazione russa. Ai loro fianchi penzolano delle lunghe sciabole ricurve. La carovana punta dritto verso la mia direzione. Abbiamo davvero poco tempo per nasconderci, se vogliamo evitare il massacro.
Corro a più non posso verso i miei compagni. Cado molte volte mentre ripercorro il tragitto al contrario. Mi ritrovo la sabbia perfino in bocca, così asciutta che non riesco nemmeno a sputare. Scollino la duna e li vedo, Jeremy che cazzeggia col coltello, Bud è sdraiato con la testa sullo zaino, sembra addirittura dormire. Vorrei urlare per avvertirli, ma siamo sotto vento e peggiorerei soltanto la situazione. Un silenzio agghiacciante satura la valle. Sento solo il mio respiro affannato, mentre cerco di ingoiare grosse boccate d'aria. Gli ultimi metri sembrano non finire mai, mentre affondo il passo fino a metà anfibio.
Jeremy mi guarda spalancando gli occhi. Mi chiede cosa è successo, mentre con un calcio sveglia Bud che russa beato. Cerco di riprendere fiato e gli spiego quello che ho visto.
- Dobbiamo nasconderci. Subito! Cazzo! -
- E dove... Dove cazzo vuoi nasconderti qua? Non c'è niente per chi sa quanto -
Bud intanto arma il fucile. Probabilmente non ha capito il numero di beduini che compongono la carovana armata.
Non rispondo neanche alla domanda di Jeremy e comincio a correre verso la sponda opposta a quella da cui sono sopraggiunto. Mi auguro che la morfologia del territorio sia uguale sull'altro versante. In tal caso avremmo qualche possibilità di nasconderci, magari in un'altra valle, ad aspettare il passaggio dei beduini. Sento gli altri che raccolgono in fretta le cose e iniziano a seguirmi. Bud impreca, ma con la coda dell'occhio vedo che si mette a correre anche lui. La cima più alta dell'enorme duna sembra lontanissima e noi siamo ancora a metà. I cammelli non hanno i nostri stessi problemi di movimento. Li sento avvicinarsi sempre di più. I beduini parlano tra loro, in quella maledetta lingua che non sopporto più!
Quando finalmente arriviamo in cima, mi sembra di avere ingoiato metà della sabbia del deserto, ma non me ne curo. Davanti a me si stende un’altra valle, più piccola di quella che abbiamo appena lasciato. Sull'estremità destra intravedo delle grotte e mi ci butto a capofitto. Bud ansima come un pazzo e per un attimo credo che gli stia per venire un infarto, mentre arranca dietro a Jeremy.
Arrivo davanti alle grotte e mi ci infilo, senza neanche guardarmi indietro. Mi fermo, appoggiato al muro, e cerco di riprendere fiato. Arrivano anche gli altri due, che senza dire una parola si stendono a terra. Bud sta vomitando in un angolo; Jeremy lo ha trascinato a forza per gli ultimi metri.
Non so quanto tempo è passato, non credo molto, ma adesso riesco a respirare normalmente. Con una lunga sorsata d'acqua dalla borraccia riesco finalmente a pulirmi la bocca. Mi accendo una sigaretta e tendo l'orecchio verso l'interno della grotta. Il rumore non si fa attendere, sembrano delle voci, ma non riesco a capire bene. La corsa mi ha frastornato.
- Merda! –
Mi volto a guardare Jeremy e ne seguo lo sguardo. I rumori non vengono dalla caverna ma dalla cima della duna. I beduini l'hanno appena sorpassata. Indietreggiamo all'interno della caverna, fino ad uscire dalla portata dei raggi del sole che illuminano l'ingresso. Trattengo il fiato sperando che la carovana cambi direzione. Spero proprio che non abbiano intenzione di entrare nella caverna…
La buona notizia è che non lo fanno, la cattiva è che si stanno accampando proprio davanti a noi.
- Dobbiamo chiamare il convoglio - dice Jeremy.
- Dobbiamo dirgli che siamo nella merda e che devono venire a prenderci. Se arrivano con i mezzi per quei negri del deserto non c'è più storia -
Mi pare un' ottima idea. Faccio per allungare la mano verso il mio zaino che contiene la radio, quando mi accorgo di averlo lasciato sulla duna.
- Sei una testa di cazzo! - Bud mi si avventa contro. Jeremy riesce a placcarlo a mezz'aria e, anche se è la meta di Bud, riesce ad immobilizzarlo.
- Sta zitto! Vuoi farti sentire dai beduini? Zitto! -
Bud si calma, ma gli leggo negl’occhi la voglia di uccidermi. Io rimango immobile, in silenzio, finché il tizzone della sigaretta non mi brucia le dita.
- Dobbiamo addentrarci nella caverna e vedere se c'è una via di uscita. È l'unico modo -
- È l'unico modo perché qualche stronzo ha lasciato lo zaino in culo al mondo - Bud schiuma di rabbia e Jeremy non lo contraddice. Anche il suo sguardo è furibondo. Nonostante tutto i due mi seguono, non che abbiano molta altra scelta. Accendiamo le torce elettriche e iniziamo a camminare.


- La prossima settimana il capitolo 9 - 

Un pessimista è un ottimista ben informato