domenica 18 ottobre 2009

Il seme dell'odio: Capitolo I -A casa-


Un romanzo breve di:
Jack Lombroso & Jonathan Macini

Ogni settimana un capitolo tutto per voi,
qua su Novocaina
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PRELUDIO

- Soldato David Norton -

Non vi hanno mai parlato del macello di Falluja? No, certo che non l’hanno fatto. Maledetti loro! Una festa di sangue di proporzioni inaudite, un evento spregevole superbamente coperto dalle televisioni. Coperto nel senso di sotterrato. Capite, vero?
Ma di macelli laggiù ce ne sono stati tanti, e ce ne saranno ancora. Alcuni di questi non vengono neanche riportati dai giornalisti freelance, mentre altri rimangono segreti. Sono i segreti che migliaia di reclute si portano a casa. Incapaci di credere ai loro stessi gesti, si convincono di non aver mai fatto niente del genere. Sono i semi dell’odio, quelli raccolti oltreoceano e piantati in terra natia. Crescono e mettono i frutti, migliaia di bombe pronte ad esplodere.
Vi parlerò della mattanza alle grotte del deserto, poco fuori Falluja. Quello è un segereto che conosciamo solo io e i miei amici… Tre mesi dopo ho lasciato una volta per tutte quel dannato paese. Coltiverò il mio germoglio a casa mia.
Il mio nome è David Norton, e ho un incarico importante da portare a termine, lentamente, un pezzo alla volta. Volete seguirmi? Volete sbirciare oltre il lenzuolo, quello che ricadendo fa risaltare la sagoma del cadavere? Siete pronti?
Il sipario di sta alzando.
Lo spettacolo ha inizio.



- A casa -

Il ronzio del bimotore mi avverte che siamo pronti ad atterrare. Benissimo. Non ce la facevo più. Sono quasi trentasei ore che vengo sballottato da una parte all’altra del mondo. Tre continenti, cinque stati, due aeroporti internazionali e mille dannatissimi controlli. Dal finestrino riesco a scorgere il lago. Il velivolo incomincia la discesa. Eccola lì; un buco di culo in riva all’acqua. Eire, Pensilvanya, Stati Uniti. Ci sono nato, ci sono cresciuto, e fino a pochi mesi fa avrei giurato che ci sarei anche schiattato in quella fogna. Ma adesso non so più…
L’aria è quella di casa mia. Mi rigenera il fisico, ma non riesce neanche ad avvicinarsi all’intimo. L’intimo è perduto per sempre. Si è dissolto quel pomeriggio di tre mesi fa, tra la sabbia del deserto e l’odore della cordite.
Mia madre mi viene incontro. L’abbraccio, o almeno ci provo. È ancora più grassa, forse ha superato i cent’ottanta chili. Mio padre, una manciata di libbre in meno, sorride dietro di lei. Indossa la solita giacca verde con la bandierina in bella mostra. Si, la bandierina del cazzo, che sventoliamo sotto il naso di tutti, spacciando dosi mortali di libertà. Vi liberiamo noi. Certo, Bang! Sei libero fratello…
Abbraccio anche il vecchio. Mi stringe come per farmi capire che adesso sa che sono diventato un uomo. Mi viene la bizzarra idea di dargli un calcio nelle palle e spappolarli il cranio con un mattone.
Mentre ci dirigiamo verso il suv, la grassona mi dice che ha preparato del pollo fitto, come piace a me. Mio padre mi informa che stasera c’è la partita. Assolutamente imperdibile. Sprofondato nel sedile posteriore, guardo fuori dal vetro e vedo scorrere l’asfalto. Attraversiamo la città, duecentomila anime davanti al televisore. Un cane che abbaia da dietro il recinto. Un ragazzino in bici. Tutto così tranquillo…
Quando arriviamo mio padre mi sveglia. Dormivo come un bambino, con la testa appoggiata al finestrino dell’auto. Si, da qualche giorno mi addormento così, senza accorgermene. Non sogno. Cado. Tocco l’abisso. C’è tanta serenità laggiù.
La cena, il pollo, la partita di baseball, papà che mi confessa di quanto sia fiero di me, mamma che piange perché è così felice di avermi di nuovo a casa. Le nove, le dieci, le undici. Finalmente sono a letto. Le ultime ore sono state ancora più orribili del volo. Voglio dormire. Tornare nell’abisso, dove non esiste niente.

Uova col bacon davanti alla TV. Un bicchiere di latte scremato. Gli usignoli di papà che cantano nella loro gabbia appesa al porticato. Sono a casa.
Non ho programmi o, per essere più precisi, non ho programmi condivisibili. Lavoro, progetti, interessi. Niente. Riscuoterò l’assegno dell’esercito per i prossimi sei mesi, ma non credo che mi servirà così a lungo. Qualcosa mi dice che non ne avrò bisogno.
La mattinata la passo alla stazione degli autobus a guardare dei vecchi che vanno a trovare i parenti defunti al cimitero. Un pretesto come un altro per continuare a vivere. Potrei fare un salto al Dell’s, prendermi un caffè e fare due chiacchiere con quel cacasotto di Bernie, il barista. Chissà come mi è venuta in mente una cosa del genere. No, quello l’avrei potuto fare prima di Falluja. Era una cosa che faceva l’altro David.
Vorrei allungare le notti vuote, dilatarle il più possibile. Ma per farlo ho bisogna di nuove celebrazioni, annientare l’intimo per toccare l’abisso. E dormire.
Siete confusi? Non preoccupatevi. Tra poco vi sarà tutto chiaro. Tra poco arrivano le sei, l’ora giusta per fare del male. Come quel giorno nel deserto…

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