Il rumore della discoteca era assordante anche nel parcheggio. Jeco infilò a fatica la chiave nella serratura della sua scattante millesei con motore compresso, camuffata da utilitaria, e si mise al volante. Era euforico, non avrebbe voluto lasciare la festa ed ancora continuava ad agitarsi come fosse un frullato di frutta, ma una vocina in fondo alla coscienza gli ripeteva ossessivamente che l’indomani avrebbe dovuto presentarsi in banca, del tutto in forma, alle otto in punto. Fortunati gli amici disoccupati che potevano dormire fino all’ora di pranzo e spernacchiavano la madre se, povera donna, tentava di svegliarli prima di mezzogiorno. Ma lui non poteva perdere quel posto che al padre era costato tante umiliazioni, e fogli da cento, verdi, verdi !
Nessuno degli amici aveva voluto seguirlo, dopo tutto erano solo le quattro del mattino, la vera festa doveva ancora cominciare. Girò la chiavetta, accese il lettore del cd con il volume sparato al massimo e partì sgommando. Aveva la sensazione che la sua testa fosse infilata in cima ad una canna ed il corpo, sotto, si muovesse liberamente, seguendo il ritmo ossessivo della musica. Il rumore delle ruote sulla ghiaia lo fece ridere a crepapelle. Poi, sull’asfalto, mise il piede a tavoletta, accompagnando con urla scomposte il caos di decibel che usciva dalle casse. Gli sembrava di volare, sollevato un metro sopra la strada, e sentiva il volante leggero, leggero, come in un video gioco. Alla prima curva girò senza problemi, aumentando la velocità: nel buio della notte si sentiva onnipotente. Tra qualche minuto avrebbe posato la testa sul suo cuscino, nella cameretta con i pupazzi che conservava da bambino ed i poster hard che la mamma spolverava ad occhi chiusi. Ancora qualche minuto. Per un attimo si ricordò del guidatore del carro infernale della tomba di Sarteano, una divinità etrusca dell’oltretomba che aveva visto su Internet, qualche giorno prima. “Corri, corri demone dai capelli rossi, inarrestabile come un uragano” urlò. All’improvviso si trovò di fronte un muro e rise, sapeva che quel muro non c’era: dopo la prima curve la strada era diritta, fino a casa. Il muro era una fantasia del suo cervello, doveva solo inchiodare all’altezza del cancello dei vicini, scendere dall’auto ed entrare in casa, salutare la mamma, sempre alzata in attesa del suo ritorno, infilarsi nel letto, dormire e, il giorno dopo, come sempre, sedersi dietro quel fottuto sportello di banca.
Ma il cancello non c’era più ed il muro era reale: la macchina, dopo averlo urtato, volò in cielo, ruotando su se stessa, poi atterrò esplodendo. La musica all’improvvisò cessò e tutto divenne nero.
“Ecco guarda, questo è un braccio - disse un giovanotto vestito d’arancione, rivolto al suo compagno – sì, guarda, qui c’è il busto con la testa: meno male, si può rimettere insieme e farlo sembrare intero. Sai, per la famiglia: se gli dici che sono decapitati svengono, come avesse importanza essere morti interi o a pezzi.”
“A me non sembra che cambi molto! Sfracellarsi a cento metri da casa, roba da deficienti!” replicò il collega, stanco di frugare tra i cespugli alla ricerca dei pezzi di quel puzzle umano.
“Almeno ha fatto tutto da sé, senza ammazzare altri disgraziati!” aggiunse l’uomo in arancione.
“Che schifo! - esclamò il collega – questa gamba è ancora calda e sanguina!”
“Che ci vuoi fare, siamo arrivati meno di dieci minuti dopo l’incidente. Metti tutto nel sacco, così ce ne andiamo e diciamo che era ancora vivo, altrimenti ci tocca aspettare l’arrivo del magistrato, e sai che palle! Ma bisogna che ci sia tutto: due braccia, due gambe, busto e testa, mi raccomando!”
“Ma non abitava qui vicino? E i parenti?”
“Sì, qui davanti, ma non si sono accorti di nulla, poveracci, dormono come angioletti. La casa ha le finestre chiuse!”
Nel sacco tutto era nero. Il cervello di Jeco, dopo quindici minuti, a sprazzi ancora funzionava. Solo che la testa non era più sopra un palo, ma tagliata di netto. Sulla retina però ancora rimaneva un’immagine viva e urlante, il volto ghignante del demone etrusco che lo trascinava, con la sua biga di vento, verso gli inferi.
Nessuno degli amici aveva voluto seguirlo, dopo tutto erano solo le quattro del mattino, la vera festa doveva ancora cominciare. Girò la chiavetta, accese il lettore del cd con il volume sparato al massimo e partì sgommando. Aveva la sensazione che la sua testa fosse infilata in cima ad una canna ed il corpo, sotto, si muovesse liberamente, seguendo il ritmo ossessivo della musica. Il rumore delle ruote sulla ghiaia lo fece ridere a crepapelle. Poi, sull’asfalto, mise il piede a tavoletta, accompagnando con urla scomposte il caos di decibel che usciva dalle casse. Gli sembrava di volare, sollevato un metro sopra la strada, e sentiva il volante leggero, leggero, come in un video gioco. Alla prima curva girò senza problemi, aumentando la velocità: nel buio della notte si sentiva onnipotente. Tra qualche minuto avrebbe posato la testa sul suo cuscino, nella cameretta con i pupazzi che conservava da bambino ed i poster hard che la mamma spolverava ad occhi chiusi. Ancora qualche minuto. Per un attimo si ricordò del guidatore del carro infernale della tomba di Sarteano, una divinità etrusca dell’oltretomba che aveva visto su Internet, qualche giorno prima. “Corri, corri demone dai capelli rossi, inarrestabile come un uragano” urlò. All’improvviso si trovò di fronte un muro e rise, sapeva che quel muro non c’era: dopo la prima curve la strada era diritta, fino a casa. Il muro era una fantasia del suo cervello, doveva solo inchiodare all’altezza del cancello dei vicini, scendere dall’auto ed entrare in casa, salutare la mamma, sempre alzata in attesa del suo ritorno, infilarsi nel letto, dormire e, il giorno dopo, come sempre, sedersi dietro quel fottuto sportello di banca.
Ma il cancello non c’era più ed il muro era reale: la macchina, dopo averlo urtato, volò in cielo, ruotando su se stessa, poi atterrò esplodendo. La musica all’improvvisò cessò e tutto divenne nero.
“Ecco guarda, questo è un braccio - disse un giovanotto vestito d’arancione, rivolto al suo compagno – sì, guarda, qui c’è il busto con la testa: meno male, si può rimettere insieme e farlo sembrare intero. Sai, per la famiglia: se gli dici che sono decapitati svengono, come avesse importanza essere morti interi o a pezzi.”
“A me non sembra che cambi molto! Sfracellarsi a cento metri da casa, roba da deficienti!” replicò il collega, stanco di frugare tra i cespugli alla ricerca dei pezzi di quel puzzle umano.
“Almeno ha fatto tutto da sé, senza ammazzare altri disgraziati!” aggiunse l’uomo in arancione.
“Che schifo! - esclamò il collega – questa gamba è ancora calda e sanguina!”
“Che ci vuoi fare, siamo arrivati meno di dieci minuti dopo l’incidente. Metti tutto nel sacco, così ce ne andiamo e diciamo che era ancora vivo, altrimenti ci tocca aspettare l’arrivo del magistrato, e sai che palle! Ma bisogna che ci sia tutto: due braccia, due gambe, busto e testa, mi raccomando!”
“Ma non abitava qui vicino? E i parenti?”
“Sì, qui davanti, ma non si sono accorti di nulla, poveracci, dormono come angioletti. La casa ha le finestre chiuse!”
Nel sacco tutto era nero. Il cervello di Jeco, dopo quindici minuti, a sprazzi ancora funzionava. Solo che la testa non era più sopra un palo, ma tagliata di netto. Sulla retina però ancora rimaneva un’immagine viva e urlante, il volto ghignante del demone etrusco che lo trascinava, con la sua biga di vento, verso gli inferi.
Fuchs
Racconto pubblicato in contemporanea con Scrivolo
Nessun commento:
Posta un commento