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venerdì 25 settembre 2009

LA VILLETTA DI PAPÁ



Lacrime di sangue sulla faccia della luna. Un ululato lontano squarcia il disegno delle tenebre, mentre arranco fuori dal seminterrato della villetta di papà, quella sulle colline.
Mi accendo una sigaretta. Ho le mani lorde ma non ci bado. Le cime degl’alberi si muovono nel riverbero delle luci artificiali, quelle dell’autostrada vicina. Autisti notturni sfrecciano a meno di duecento metri da dove mi trovo, del tutto ignari del macello appena compiuto.
Il sapore della sigaretta è buono. Ho appoggiato volutamente le dita alle labbra. Ho gustato il lordume mischiandolo al tabacco. Ferro e humus.
Perché uccido? È una domanda alla quale ho provato di rispondere spesso. Non è facile. È un po’ come chiedersi perché si respira. È una domanda sciocca. Spesso me la pongono anche le mie vittime, un attimo prima che la festa abbia inizio.
David e Luana. Si chiamavano così quelli di stasera. Il pretesto era scontato, un threesome a casa mia, tutto organizzato in chat; la coppia e lo sconosciuto. Adoro fare la parte dello sconosciuto…
Nell’email specifico ai due che è meglio se vengo loro incontro. La strada per raggiungere la villetta è dissestata e ci si può arrivare solo con un fuoristrada. Li vado a prendere al casello dell’autostrada, lasciamo la loro auto in una stazione di servizio chiusa, poi andiamo tutti quanti su con il mio cheerokee. Sono davvero carini, trentacinque lui, appena ventisette lei. Quando imbocchiamo lo sterrato, quello che porta alla villetta, avverto la prima erezione. Incomincia sempre così.
Parlo con loro ma la mia mente è altrove. Temo di aver dimenticato a casa il seghetto. Sarebbe un bel problema. Potrei risolvere con l’accetta, ma quella fa sempre troppi schizzi. E poi chi glielo dice a papi…
Quando entriamo in casa mi fanno i compimenti per l’arredamento, poi li faccio accomodare in salotto. Servo del brandy e della cola. Lei non beve.
Davanti al camino parliamo del più e del meno. Lei gestisce un piccolo negozio di scarpe, lui è istruttore di golf. Io dico loro che faccio lo scrittore, una bugia che mi viene sempre bene.
Ma non siamo lì per parlare. Dieci minuti dopo Luana me lo sta succhiando sul divano, mentre il suo compagno incomincia ad eccitarsi. Il fuoco scoppietta come un dannato, in sottofondo ho messo del lounge, ma si sente appena. Percepisco invece i mugolii di lui e i risucchi di lei.
David si avvicina. È accaldato dal fuoco e dalla situazione È pronto a prendere la sua compagna da dietro, mentre lei continua a darmi piacere. Ma non glielo permetto.
La beretta esplode in faccia all’istruttore di golf. Pezzi di cervello vanno a sfrigolare sui tizzoni del camino. Sento la mascella di Luana tendersi sul mio membro. Si è accorta della sorpresina. La prendo per i capelli e la sollevo. Lei urla. In faccia le leggo un terrore alieno, e me ne felicito, perché ne sono l’artefice.
Ordino al telecomando di alzare il volume dello stereo. Lei può urlare quanto vuole. Il ritmo è incalzante, c’è anche un bel sax.
Luana è piccola. Ci mette tutta la forza che ha in corpo, prova a divincolarsi, ma io le afferro una mano, la giro, la immobilizzo. Un attimo dopo è mia prigioniera. La festa può incominciare.
Nel seminterrato tutto è pronto. Purtroppo i miei dubbi vengono confermati. Non c’è il seghetto. Sorrido alla mia complice e condivido con lei il mio disappunto. Lei è imbavagliata. Mi risponde sbattendo le palpebre e soffocando un gemito. Come la capisco…
Luana ci mette venticinque minuti a morire. Fa bene il suo dovere. Rantola, defeca, schiuma. Insomma, tutto il repertorio. Io provo nuove tecniche. Alcune mi lasciano soddisfatto, altre meno. A fine opera mi convinco che ho bisogno di nuovi strumenti.
La notte è tiepida. La sigaretta è a fine. Mi perdo nel disco lunare. Anch’io vorrei ululare insieme a quel lupo. Come lo capisco…
A valle distinguo le luci della jeep, puntualissima. Sale lentamente verso la villetta, sballottata dalle buche e dalle pietre più grosse. Le vado incontro.
Si ferma accanto al cheerokee.
«Ciao papi!»
Papà mi guarda con un interrogativo negli occhi.
«È tutto pronto» lo rassicuro io.
«Bene…» risponde. È fiero di me.
«Di sopra bisognerà passare lo straccio…»
«Non ti preoccupare figliolo. Lo facciamo insieme, più tardi.»
Lo vedo sparire nel seminterrato.
Buon’appetito papà.

Jonathan Macini


sabato 12 settembre 2009

CLARISSA

La notte che uccisi Clarissa scoprii l’irresistibile fascino della morte. Ma prima di raccontarti questa storia, mia cara lettrice, desidero che tu conosca una grande verità: più ti è vicina la persona reclamata dalla nera signora, più meravigliosamente profondo è l’abisso in cui la tua anima vorrebbe abbandonarsi.
L’omicidio di Clarissa incominciò per gioco. Glielo dissi pure, mentre possedevo il suo corpo minuto e spigoloso sul tavolo della cucina. Nella luce morbida degli spot, ricordo i suoi seni appena accennati, come quelli di una tredicenne, la sua bocca vorace, i suoi occhi con quel taglio vagamente orientale, sopra un nugolo di deliziose lentiggini.
“Vienimi dentro!” mi urlò. Ed io, trascinato dall’onda irrefrenabile dell’orgasmo, le risposi “Prima o poi ti uccido, Clarissa!”
Il giorno dopo mi portò il caffè a letto, ed era più dolce del solito. A me basta una puntina di zucchero per ammazzare l’amaro, invece ne aveva messo un intero cucchiaino. Appena lo assaggiai mi venne la bizzarra idea che avesse paura e che inconsciamente avesse zuccherato il caffè, pensando così di potere addolcire anche me.
“Davvero mi vuoi uccidere?” sghignazzò lei, arruffandomi con la mano i capelli.
“Difesa personale” gli risposi. “Ti ucciderò prima che tu uccida me…” Poi risi, e quella fu la mia prima risata macabra. Col tempo sono riuscito a perfezionarla, e adesso ne vado quasi fiero. Lei rise di rimando, ma non riuscì a nascondere lo sforzo che faceva a rimanere allegra.
Il gioco continuò per una settimana, poi lei cedette. Una sera mi chiese di smetterla con gli scherzi sulla morte perché la mettevano a disagio. Io le dissi “va bene” e non ne parlammo più. Ma intanto nella mia testa l’idea aveva già assunto proporzioni ben più realistiche di un semplice gioco.
Il pensiero più affascinante fu la scelta dell’arma. Come avrei rubato la vita della piccola Clarissa, gracile come un fuscello, una bambola di pelle candida profumata di fiori di pesco? Il coltello lo trovai subito troppo scontato, l’arma da fuoco troppo volgare e il veleno assolutamente borghese. Mi ci volle un mese per prendere una decisione, ma posso dire adesso di aver fatto bene i miei calcoli. Quando chiudo gli occhi posso ancora avvertire sui palmi delle miei mani il viscido calore dei suoi liquami, rievocare il profumo dei suoi organi, rimirare il cremisi delle sue interiora, un’esperienza davvero straordinaria.
L’altro dettaglio che mi premeva era il momento, perché richiamare la morte è una specie di atto liturgico. Il movente in realtà è assolutamente irrilevante, ma il modo e il tempo, così come il luogo, sono elementi essenziali per portare a termine il rituale in modo soddisfacente. Il luogo lo conoscevo da tempo; il letto in cui ci eravamo amati per più di un anno. Mancava solo il tempo…
Fu lei a porgermi la data su un piatto d’argento.
“Amore, cosa facciamo venerdì?”
“Venerdì? Cosa succede venerdì?”
“Ma come che succede? È il tuo compleanno!”
“Ah, già… lo dimentico sempre…”
Ma quella volta non me lo dimenticai…

Cena a base di pesce, antipasto freddo servito su un letto di ghiaccio tritato, risotto all’astice e lime, spiedi di calamari e gamberoni alla brace con radicchi ed erbe aromatiche. Un pinot grigio per annaffiare ed una bottiglia di Berlucchi per festeggiare. Lei vestita di classe, col nero che le dona sempre, io in jeans e camicia, nonostante il ristorante di livello. Non ho mai sopportato i completi e le cravatte…
Usciamo sazi e lievemente ubriachi. Fumo la mia cicca prima di entrare in auto, lei manda due messaggi col cellulare, poi mi chiede se voglio che guidi lei. Le rispondo di no e le apro la portiera, come un vero gentleman. È davvero bella…
Le chiedo del mio regalo e lei mi guarda con un sorriso malizioso negli occhi. Mi dice che ce l’ha indosso e che me lo mostrerà tra poco. Al provocante invito rispondo con fare lento, lasciandomi scorrere addosso il momento. Non ho fretta di arrivare a casa. Ho tutta la notte a mia disposizione e non voglio commettere errori. Ai semafori gialli rallento e mi fermo, evitando scrupolosamente di superare i limiti di velocità. Lei intanto gioca di nuovo con il telefonino.
«A chi scrivi?» le chiedo.
«A Linda. Domani andiamo a fare shopping…»
«In centro?»
«Si…»
No, Clarissa, domani sarai alla corte della nera signora, penso io, stringendo più forte il volante in similpelle della C3.
Saliamo nel suo appartamento, che è stato anche il mio per quasi quattro mesi. Convivere è meraviglioso. Solo vivendo sotto lo stesso tetto riesci veramente a conoscere qualcuno, o comunque una parte sostanziale di questo qualcuno. Vedere Clarissa lavarsi i denti, sentirla imprecare per una macchia sul pavimento, annusare i suoi vestiti sporchi, trovare i suoi capelli dalla vasca da bagno, sono state emozioni molto più intense delle scopate che facevamo nei primi tempi, quelle di puro abbandono. Il sesso non mi è mai veramente interessato, anche se non gliel’ho mai dato a vedere.
Lei s’infila in bagno mentre io mi verso un goccio di J&B. Mi trovo in uno stato quieto, fluido. Sento che i movimenti usciranno fuori da soli, basterà lasciar fare al demone che ho coltivato negli ultimi mesi, come una bestia affamata prigioniera dentro la mia anima. Credo che alla fine ce l’abbiamo tutti. La differenza tra me e te, carissima lettrice, è che io non ho più paura di aprire la sua gabbia.
Metto su un po’ di lounge e mi distendo sul letto, vestito e con il bicchiere in mano. Per adesso faccio fare a lei. Devo conservare le energie per ripulire la stanza, quando tutto sarà finito. Lei esce dal bagno con indosso un completino blu che riesce appena a mostrare le sue forme, tanto è minuta. Si avvicina, mi leva il bicchiere di mano e incomincia a baciarmi. Le sue mani armeggiano abilmente i bottoni della camicia, ma quando si spingono più giù le blocco. Continuiamo per un po’ così, poi le sussurro: “ti vá di fare un giochino?” Mi guarda sorpresa, è una cosa nuova per noi, ma oggi è il mio compleanno e pare si senta quasi in obbligo di dirmi di si. Scendo dal letto e frugo nell’armadio sotto i miei vestiti. So bene cosa cerco; due paia di manette. Ce le ho messe la sera prima, insieme a qualcos’altro...
Torno da lei e le leggo un velo di paura negli occhi, ma io la tranquillizzo con un bacio e la promessa di un piacere nuovo. Con movimenti dolci e lenti l’aiuto a posizionarsi nel mezzo al letto, le passo attorno ai polsi il freddo metallo dei ceppi, e infine la fermo alla testiera di ferro battuto. Inizio a baciarla, scendo giù con esperienza, sosto per un po’ attorno all’ombelico, poi le sfilo delicatamente le mutandine. Dopo averla provocata abbastanza, le affondo la bocca nella vagina, iniziando a muovere dolcemente la lingua. La sento gemere, dimenarsi, salire fino alle alte vette dell’orgasmo. Il suo urlo di piacere precede di un attimo le contrazioni muscolari del corpo e delle sue gambe, strette attorno alla mia testa. Adesso tocca a me, penso.
«Lo voglio in bocca…» mi dice.
«No aspetta, ho un’altra idea…» le rispondo. Poi vado a prendere la corda, il nastro adesivo e le cesoie...

La notte che uccisi Clarissa scoprii l’irresistibile fascino della morte. Fu lei la prima, e come in amore, la prima non si scorda mai. Adesso hai capito, mia piccola lettrice, perché nel mio guardaroba conservo ancora la sua pelle, liscia, candida, profumata di fiori di pesco.
Su tesoro, smettila di tremare. È arrivata l’ora del rituale…

Jonathan Macini 2009

Un pessimista è un ottimista ben informato