giovedì 11 novembre 2010

(Profilo n. 5). Nessuna socialità.

Era fin dalla mattina che non stavo bene. In ufficio non era capitato niente di nuovo, avevo sbrigato le solite cose come ogni giorno, avevo scambiato anche qualche parola con i colleghi, niente di speciale, i soliti apprezzamenti e le solite battute scherzose. Una volta tornato a casa con la mia macchina, avevo notato come tutte le cose fossero rimaste esattamente com’erano, senza che niente si fosse spostato o io ricordassi di averlo messo in un luogo diverso. Pensavo che era difficile tirare avanti in quella solita esatta maniera, non trovavo nessun gusto nel vedere come tutto restasse esattamente così, senza nessuna variazione, perché questo immobilismo mi dava la nausea.

Allora ero uscito di casa, avevo fatto un giro a piedi lungo la strada principale del mio quartiere, poi ero entrato dentro un locale, un bar qualsiasi, dove sinceramente non ero mai stato. Sentivo l’espressione del mio viso quasi irriverente verso chiunque, come un maschera che mostrasse la voglia per chi la indossava di stare da solo, di essere fuori dagli atteggiamenti ordinari, lontano da tutti, ma dovesse piegarsi a convivere con persone casuali con le quali confrontare degli atteggiamenti normali, scambiare qualche parola, mostrarsi sociale.

Mi ero fatto servire una birra, poi mi ero accostato al biliardo in fondo alla sala, dove giocavano in tre o quattro, ma giusto per guardare qualcosa e ascoltare qualche opinione. Un uomo ben vestito vinceva, ma in silenzio, pacatamente, senza mostrare la sua superiorità, evitando di dare a vedere la soddisfazione, che probabilmente provava, per quanto era capace di fare. Osservai le sue mani, i suoi modi di comportarsi. Qualcuno tra i giocatori si lamentava della serata sfortunata, altri incassavano la sconfitta senza troppo dannarsi.

Appoggiai la mia birra su un tavolo, mi sedetti al margine della zona di gioco. Rimasi diversi minuti in silenzio, sempre osservando quei giocatori, infine irruppi con una fragorosa risata che non saprei neanche dire da che cosa fosse causata. Mi guardarono tutti, ognuno immaginando che ridessi di lui, o di qualcosa a lui riferibile, ma nessuno trovò niente da dire. Infine mi alzai, chiesi scusa del mio atteggiamento, pagai la mia birra ed uscii. Rimasi sul marciapiede qualche minuto, senza sapere esattamente che fare, se tornarmene a casa oppure no, fino a quando dalla porta del bar vidi uscire l’uomo ben vestito che poco prima vinceva al biliardo.

Si era incamminato verso il parcheggio poco distante, ed io lo seguii. Attraversammo la strada a pochi passi di distanza, lui aveva coscienza che io gli ero dietro, ne ero sicuro, ma continuava a mostrare la sua indifferenza. Infine estrasse la chiave della sua auto, mise la mano sulla maniglia della portiera nell’esatto momento in cui io ero lì, accanto a lui, senza neppure saper bene cosa stessi lì a fare. Lo colpii al volto con un pugno fortissimo, tanto da farlo cadere, poi gli assestai alcune pedate, mentre era a terra, che probabilmente gli fecero perdere i sensi. Mi allontanai con indifferenza, senza che nessuno si fosse accorto di niente.

Continuai nel mio giro lungo le strade del mio quartiere, avevo il fiato grosso, sentivo la fronte sudata per l’impegno che mi aveva richiesto quella mia azione. Non ero contento, non mi sentivo particolarmente sollevato per ciò che avevo compiuto, però sapevo che era stato un mio preciso dovere quello di accanirmi su una persona qualsiasi: era come se non avessi potuto sottrarmi dal compiere ciò che sentivo nella mia natura di uomo, quasi che per uscire almeno per un attimo dal ruolo di persona ordinaria, non mi restasse altro che fare così.

Rientrai in casa dopo aver ritrovato la calma: non sentivo niente dentro di me, solo quell’indifferenza di sempre, quella solita medesima sensazione, della quale sinceramente avrei fatto anche a meno. Cercai di pensare qualcos’altro che non fosse solo me stesso, però mi resi conto che non era possibile: tutto intorno vorticava su ciò che io ero, o almeno su ciò che potevo dimostrare di essere. Quando mi adagiai sopra al letto sentii di star bene: un’altra giornata era trascorsa, non era poco, forse potevo affrontare le prossime con un minore malessere.

Bruno Magnolfi

Nessun commento:

Posta un commento

Un pessimista è un ottimista ben informato