sabato 3 aprile 2010

Di là dal muro

La luce dell’alba filtra nella stanza spandendosi in un colore azzurrino innaturale. La notte è scivolata via come sempre, accompagnata nel suo viaggio ordinario dai tanti piccoli rumori lontani e incomprensibili fuori dalle finestre ferrate. Sono già sveglio nonostante la forte dose di sonnifero che il mio custode mi ha fatto ingollare ieri sera. Qua dentro tutto sembra fatto apposta affinché ogni notte scorra via senza tanti problemi. Tra poco comunque inizierà la confusione di ogni giorno, gli urli insensati di qualcuno, le sedie rovesciate, i richiami a voce alta dei custodi. A volte loro dicono che è meglio se i matti scaricano la loro agitazione durante la giornata. Io li chiamo così gli infermieri del reparto, come gli agenti di custodia delle galere, perché alla fine non ci trovo molta differenza.

Siamo tutti divisi a categorie: ci sono gli agitati e i tranquilli, a diversi gradi. Io sono considerato uno dei tranquilli, e generalmente vengo lasciato fare. Per questo sono riuscito sempre a girare in lungo e in largo per tutta la clinica, e nessuno mi ha mai troppo controllato. Davanti al reparto c’è un giardino dove i custodi piazzano tutti i matti a godersi il sole. Intorno al giardino c’è un muro alto: da diverso tempo mi sono messo in testa di vedere cosa c’è dall’altra parte, e negli ultimi giorni ho deciso che lo devo scavalcare.

Ho iniziato a pensarci per tempo, come tutte le cose che desidero far bene, ed ho predisposto le cose con tutta la calma necessaria. C’è un punto del muro che rimane dietro un albero, coperto alla vista. Ho piazzato proprio lì una sedia, una di quelle che stazionano sempre sparse nel giardino, e sopra conto di metterci all’ultimo momento qualche libro, per ottenere un piano ancora più alto. Con i piedi sopra la sedia riesco a toccare la cima del muro, ho fatto già la prova qualche giorno fa. Devo solo attendere il momento più opportuno, quando nessuno dei custodi si trova nel giardino, e magari nessuno degli idioti al sole sta lì ad osservarmi.

Non so cosa ci sia di là dal muro, però so che c’è vita, sento i rumori della strada, sono sicuro che riuscirò a scoprire qualcosa di importante. Non sono sicuro di voler davvero andare via da qui, però sento dentro di me una curiosità irresistibile. Per tanto tempo ho camminato lungo il muro, ne ho accarezzato la superficie, mi sono immedesimato nelle sue pietre intonacate e ormai screpolate dal tempo e dall’indifferenza. Adesso ho voglia di scavalcarlo questo muro, perché tutto qui è monotono: orari stabiliti, procedure collaudate, comportamenti standard. Però mi sono anche affezionato a lui, a questo muro, e in fondo non so neppure bene dove potrei andare una volta che starò con i piedi a terra dalla parte opposta, ma la cosa di cui avrò maggior piacere è vedere l’altra faccia del muro, quella della gente libera.

Potrei chiedere di vederlo ad uno dei custodi, l’esterno del muro della clinica, e forse il direttore darebbe il permesso per andare a farci un giro. Ma a me non piacerebbe: ho bisogno di presentarmi a quel muro e fargli capire che sono io, che sono libero, che lo sto guardando da persona, non da ammalato come gli idioti che rimangono qui dentro. Gli voglio bene a quel muro, lo sento come una parte di me. Il dottore una delle ultime volte ha detto che io sono freddo, non mi interesso di nessuno: però io non gli ho detto del muro e di quanto ci tenga, e lui non ha capito niente.

Poi, all’improvviso, alla fine della mattinata un matto dà fuori di testa, e i custodi corrono ad evitare guai grossi. Capisco che è quello il momento, tutti sono occupati, nessuno bada a me. Salgo su, mi sorreggo con la mano, una bella spinta e sono sopra al muro, coperto da quell’albero frondoso. Velocemente lascio scivolare i piedi dall’altra parte, e con un salto cado a terra. Ci sono, nessuno mi ha notato, ce l’ho fatta. Mi guardo attorno velocemente, e in un attimo, come dentro a un’istantanea sgradevole, mi appare tutto brutto. Sono sopra al marciapiede, davanti c’è la strada piena di veicoli, mi chiedo dove posso mai andare adesso che sono qui, in mezzo a questa confusione. Tutto è disgustoso, non riesco a immaginare neppure come muovermi, il traffico mi paralizza, mi sembrano tutti più pazzi di quelli che stanno nella clinica.

Poi, dopo un primo momento di apprensione, mi volto verso il muro: non è possibile, mi pare un incubo, all’improvviso mi sembra che tutto quello che ho fatto e in cui ho sperato sia stato un fallimento, come tutto quanto dentro alla mia vita. Cado a terra in preda al panico, non riuscirò mai a muovermi da qui, a risollevarmi da questa assurda situazione: il muro è uguale, è identico da questa parte, lo stesso intonaco screpolato, lo stesso colore, proprio lo stesso, il medesimo di quello che è all’interno. Piango, batto i pugni sulle pietre, spero solo che vengano a riprendermi, presto, per favore, e che mi facciano ingollare un po’ di quel loro sonnifero: voglio dormire, profondamente, dimenticare in una sola notte tutto questo.

Bruno Magnolfi

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