Il senso di oppressione non mi aveva mai abbandonato. Continuavo dappertutto a vedere quei fogli di carta, quei registri, quei fascicoli ordinati per numero, le bianche superfici di ogni pagina con su le colonne di dati, di cifre, di segni, di elementi minuti riportati con pazienza infinita sotto forme quasi geometriche, con le lettere delle parole debitamente contate e sistemate una sotto quell’altra, fino a formare delle righe precise, dove i caratteri non sporgevano mai dalla fila dove erano stati inseriti, e rimanevano fermi, a costituire con gli altri l’insieme. E poi, anche i muri della mia stanza avevano occhi, e avevano continuato per anni a registrare i miei umori, i miei piccoli gesti di sfida, le mie fasi più allegre e quelle più tristi, le mie sensazioni di profonda debolezza e di grande coraggio, nelle mie posizioni di seduto, in piedi, sdraiato, ogni volta che muovevo una mano, formavo un’espressione del viso, allungavo una gamba o passeggiavo a piedi scalzi sopra al mio pavimento. Veniva il dottore, con la cartella di pelle, e tirava fuori altri fogli, altri dati. Parlava poco il dottore, e quando lo faceva sapeva essere notevolmente sgradevole: sempre domande, cosa pensavo, cosa facevo quando ero solo, cosa avrei fatto uscendo da lì, cos’era che mi mancava di più, chi era la persona a cui mi sentivo maggiormente legato; sempre domande, ed io quasi sempre rimanevo in silenzio, che tanto il dottore sapeva già tutto, mi aveva osservato chissà quante volte da dietro quei muri che dalla parte di dietro non erano bianchi, avevano il vetro, e il dottore mi poteva guardare, poteva annotare tutte le cose che facevo o pensavo, senza poter nascondere niente. No, non avevo voglia di parlare con lui, preferivo il silenzio, così chiudevo le orecchie e riuscivo a sentire la musica, una musica dolce che cantilenava senza smettere mai, che accompagnava i miei giorni e mi riempiva il silenzio. Non so da dove venisse la musica, ma era dentro di me, l’avevo sempre avuta con me, potevo sentirla come e quando volevo. Però quando mi avevano portato lungo quei corridoi, e avevo visto i registri, i cataloghi, tutti quei dati sopra agli scaffali di ferro, con i numeri sopra e tutte le etichette a colori, quei volumi pieni di carta stampata dove si poteva trovare tutto quanto era accaduto e forse anche quello che doveva accadere, la musica non mi era venuta in soccorso, e questo non mi era piaciuto. La volta seguente quando era tornato il dottore avevo aspettato, lo avevo lasciato consultare le carte, farmi qualche domanda, poi gli ero andato vicino. Gli avevo infilato il temperino di ferro in un braccio non per togliergli il sangue, che comunque aveva cominciato a cadere, ma per dargli un po’ di me stesso, per dare anche a lui quella musica che mi portavo con me, perché forse con un po’ della mia musica sarebbe cambiato, non avrebbe più fatto domande, non mi avrebbe osservato dai muri, avrebbe smesso di infilare tutte le sue stupide lettere e tutte le cifre dentro ai registri: saremmo stati più amici, e lui, davvero, ne aveva proprio bisogno.
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